Appunti sul genere: Normal di Adele Tulli

La dichiarazione d’intenti del nuovo documentario di Adele Tulli, Normal, è presentata nell’episodio di apertura: alcune donne incinte stanno seguendo un corso di aquagym e vengono riprese sott’acqua, senza che la testa sia visibile, mentre fasciate nei loro costumi interi tutti uguali eseguono diligentemente i movimenti a cui qualcuno le sta senza dubbio istruendo da bordo piscina. Si tengono per mano, sollevano ritmicamente le gambe, si spostano di lato. Il dato naturale così ben esposto dall’evidente stato avanzato delle loro gravidanze le ha riunite dentro la vasca in cui mettono in scena una piccola performance, dettata dall’esterno, che non ha nulla a che vedere con le loro personalità, le loro differenze e i loro desideri (cioè le loro teste) ma le interessa soltanto perché esponenti di una categoria definita in modo ben preciso: la donna.

In Questione di genere Judith Butler afferma che «il genere è […] il mezzo
discorsivo/culturale con cui la «natura sessuata» o «un sesso naturale» vengono prodotti e fissati in quanto “pre-discorsivi”, precedenti la cultura, una superficie politicamente neutrale su cui agisce la cultura». Normal parla proprio di questo: progettato grazie alla tesi di dottorato di Tulli e fermentato durante interminabili viaggi in car-sharing attraverso l’Italia, questo breve documentario si propone di mostrare, grazie a piccoli episodi di vita quotidiana slegati l’uno dall’altro, come sin dalla primissima infanzia ciascuno di noi venga socializzato attraverso i codici estetici e comportamentali di riferimento del sesso assegnato alla nascita. Tutto comincia in famiglia: alla bimba vengono bucati i lobi delle orecchie e donati ferri da stiro di plastica con cui giocare, ma il bambino viene portato dal padre a una gara di minimoto. Per il momento il film non giudica ma sottopone allo spettatore piccole operazioni di costruzione del genere che si collocano ben sotto la soglia dell’indignazione o del fastidio, perché tutto sommato innocue e perché portate avanti inconsapevolmente e senza alcuna intenzione maligna. Al contrario, fornire ai figli credenziali inequivocabili per muoversi nello spazio come uomini o come donne e poter così interagire con gli altri senza sentirsi fuori posto è un dovere educativo avvertito più che ragionato a lungo — si fa così perché tutti lo fanno e viceversa. Questa è la pre-discorsività di cui parla Butler: agire prima della cultura significa illudersi di seguire la natura ed è in questo passaggio che il normalizzato diventa normale, che è quasi come dire ineludibile, che a sua volta è come dire prigione.

Non c’è dubbio che Tulli guardi con occhio critico alla costruzione dei generi, che naturalmente sono solo due e ben distanziati come sottolineano i bruschi stacchi tra i diversi episodi, ma questo comincia a essere chiaro solo quando mostra dei gruppi di adolescenti e giovani e delle coppie. Con efficacia riprende un workshop di pickup artist, in cui un mastro seduttore elargisce a giovani uomini dei consigli adatti ad approcciare le ragazze, a conversare con loro e a farle innamorare facendo leva sulle incertezze e le risposte che immagina comuni a tutte le donne. Sulla scorta di quanto visto prima, non è detto che si sbagli: è solo che le donne non sono insicure circa il loro aspetto dalla nascita, bensì perché (tendenzialmente) addestrate a ossessionarsi al riguardo, così come non è che lascino che sia l’uomo a condurre il discorso perché incapaci di farlo loro stesse, ma perché (tendenzialmente) incoraggiate a mettere a proprio agio l’uomo, pena risultare troppo dure, troppo mascoline, in definitiva indesiderabili. In qualunque modo, in questo workshop come in ogni posta del cuore e più in generale nella narrazione dominante sui rapporti tra uomo e donna vengono suggerite tattiche che discendono a cascata dal ventaglio di caratteristiche che per convenzione si attribuiscono all’uno e all’altra e che diventano così modelli aspirazionali a cui aderire e a cui pretendere che il partner si conformi. Tali modelli si fanno esplicitamente prescrittivi nel rito di passaggio del matrimonio, in occasione del quale la coppia riceve numerosi ammonimenti su come gestire il nascente ménage domestico. Nell’episodio del corso prematrimoniale come in quello dell’atelier di abiti da sposa il film mostra come la principale destinataria di questo sapere sia la futura moglie, a cui si richiedono pazienza, dolcezza, premura, comprensione e cura del proprio corpo. Dovesse venir meno uno solo di questi aspetti, come sorprendersi se lui deciderà di cercare altrove ciò che gli manca in casa?

Il carattere di elaborata artificiosità del genere viene evidenziato a più riprese in episodi di performance artistica, mascheramento e anche illusionismo. Adele Tulli non ha bisogno di sottopancia né di interviste ai suoi soggetti perché la manutenzione del genere che tanto li impegna è del tutto automatica e chiedere loro di razionalizzarla non produrrebbe altro che la risposta «è normale», vale a dire un’inutile sottolineatura della tesi del film. Il documentario si conclude con l’astuta e solo apparentemente ottimistica scelta di mostrare un rito di unione civile fra due uomini: la cerimonia così simile a uno sposalizio, il taglio della torta e le foto coi parenti ben vestiti, tutti elementi mutuati dal matrimonio eterosessuale, non lasciano certo presagire la possibilità di un’alternativa ma piuttosto ribadiscono che il binarismo di genere e la conseguente eterosessualità obbligatoria sono modelli culturali così imperniati nell’immaginario collettivo da colonizzare la fantasia di chi ne è escluso e da innescare tentativi di assimilazione anziché la creazione di nuovi codici.

L’eterogeneità tonale è forse l’unico crinale scivoloso di Normal perché comporta degli spiacevoli e non del tutto corretti aggiustamenti a quanto Tulli si propone di mostrare: se la prima scena in piscina stabilisce senza equivoci che il problema del genere riguarda, seppur con differenti implicazioni, ciascuno di noi, troppo spesso situazioni sottili e delicate vengono seguite da manifestazioni estremizzate e grottesche di alcuni stereotipi, come uno sguaiato addio al nubilato o un’esibizione di ragazze a un raduno di grezzi motociclisti o anche il già citato corso prematrimoniale, in cui si cerca e si ottiene una facile quanto gratuita risata inquadrando una donna non particolarmente curata proprio mentre il prete si raccomanda di prestare sempre attenzione al proprio aspetto fisico. Diversi episodi hanno troppo a che vedere col trash e con un evidente contesto sociale di scarsa cultura per poter aspirare a essere universali, né d’altronde ci sono docenti universitari, ricchi professionisti o intellettuali alle prese con la loro personale performance di genere a far da contrappeso o più semplicemente ad ampliare lo spettro delle esperienze documentate. Sebbene «[l]a ripetizione parodica del genere mett[a] anche in evidenza quanto l’identità di genere, intesa come profondità intrattabile e sostanza interiore, sia un’illusione» (ancora Butler), l’assenza di una considerevole porzione demografica e la smaccata volgarità di molti degli episodi catapultano lo spettatore fuori dalla normalità annunciata nel titolo e così facendo non incoraggiano ma senza dubbio consentono una confortevole presa di distanza da parte dello spettatore, un distacco che permette di ridere delle persone riprese e uscire dalla sala senza sentirsi granché interessati dalla faccenda. Affermare che Normal mostri come il genere venga somministrato a tutti ma attecchisca solo sui poveri di mezzi e di istruzione sarebbe una lettura lontana dalle intenzioni di Adele Tulli ma purtroppo non illegittima rispetto al materiale con cui ha scelto di comporre il suo documentario — tuttavia questa non è che una piccola ombra su un progetto che nei passaggi meno chiassosi è capace di sollevare più di un dubbio su un aspetto così cruciale della nostra identità, su come esso si calcifichi nel tempo e soprattutto sull’effettiva necessità di attenerci senza domande a un copione che non abbiamo scritto, quasi fosse la nostra unica speranza di felicità.