Il solipsismo senza io di Guido Morselli

Nel 1973 lo scrittore italiano Guido Morselli componeva Dissipatio H.G., romanzo a lungo incompreso e snobbato, autentico laboratorio immaginario sull’umanità. Cercheremo qui di scandagliarne le conseguenze filosofiche.

L’innominato protagonista si sveglia la mattina di un 2 Giugno. È solo. Letteralmente. Il resto dell’umanità si è volatilizzato, lasciando sulla terra le proprie cose. Non v’è traccia né di apocalisse né di emigrazione collettiva. Tutto è rimasto intoccato, al proprio posto. Tranne gli uomini. Schivo e solitario per vocazione, cerebrale e cinico, il nostro eroe dovrà allora fare i conti con lo svuotamento del mondo, suo desiderio recondito e, forse, sua maledizione. Curioso che Morselli, per bocca del perplesso io narrante, vagli ogni possibile ipotesi sulla catastrofe avvenuta, esplori tutte le possibilità fantascientifiche e narratologiche di una vicenda così singolare, spingendo però il lettore a concentrarsi su tutt’altro: la peculiare condizione esistenziale concreta nella quale si trova a vivere quello che a tutti gli effetti è l’ultimo uomo rimasto sulla Terra. Rifiutando ogni analisi psicologica, in modo così ostentato da risultare sospetto.

Copertina dell’edizione italiana di Dissipatio H.G.

Elenchiamo solo alcuni degli elementi della “nuova realtà”: la tecnologia sembra essersi tramutata in qualcosa di “naturale” (o prossima a ciò che comunemente riteniamo tale); è ormai parte dell’ambiente circostante, ancora più evidente ora perché, in assenza dell’uomo, prosegue meccanicamente il suo lavoro, gira a vuoto (o per soddisfare i bisogni di un unico individuo), quasi che l’uomo ne fosse il grande corruttore, come lo era delle cose “naturali”. La tecnologia è ormai un dato inemendabile della realtà. Diviene brada, selvaggia, le macchine sembrano pascolare. Finiscono per appartenere al paesaggio con la loro immobilità, come gli alberi. Artefatta e alienante è invece la totale assenza di rumori: un mondo senza uomini non può esser silenzioso, perché quantomeno riacquisterebbe tutti i suoni che erano stati sottratti o occlusi dalla sua presenza (ad esempio uccelli canterini che prendono il sopravvento su una intera città), ma sarebbe anche privato dei precipui suoni umanoidi. Ogni rumore è amplificato nel rimbombante silenzio del mondo (silenzio solo umano), amplificando l’orrore della solitudine assoluta. Il silenzio, così come il tempo, immobile quando nessuno lo misura1 , svelano la loro natura di artefatti umani; un uomo singolo non può recuperarne la persistenza.

Ideologie, organizzazioni, economie, prodotti, tutto dissolto, eutanasizzato senza rombi o scoppi, evaporato: una prece alla società e una alla civiltà. Per Morselli schiavitù volute dagli uomini stessi. Rimane l’ipotesi che possano esistere ancora individui lontani, popoli selvaggi o magari tutti i groenlandesi, ma non cambierebbe nulla: l’impossibilità di spostarsi e comunicare li rende inesistenti nella pratica. Quella certamente scomparsa è l’umanità chiacchierona e ciarliera, la cui voce pretende essere quella dell’intero globo: e invero esso ora finalmente tace. Inutile dire che con la scomparsa dell’uomo il mondo rinasce, torna a rifiorire, torna rigoglioso e vivace: in questo senso è impossibile sostenere per ingenuo antropocentrismo che fine dell’uomo = fine del mondo.

Un mondo tecnologico, meccanico, che prosegue per inerzia a funzionare anche senza i suoi “creatori” è scenario ancor meno bizzarro se visto con occhi contemporanei. Cosa succederebbe alla pervasiva realtà virtuale se l’umanità d’un sol colpo dovesse eclissarsi? Internet con miliardi e miliardi di parole scritte da gente che non c’è più, YouTube carico di tutte le sfaccettature degli ex-viventi, lunghissime discussioni in chat o sui blog che l’ultimo uomo può ancora leggere, sentendole vive e presenti (ed è ciò che già accade se ci capita di imbatterci in discussioni della preistoria del web, risalenti anche a quindici anni fa: non siamo mai usciti dal cupio dissolvi).

Il protagonista comincia allora a provare nostalgia per cose che prima lo infastidivano, come il rumore delle automobili; e già qui emerge il dramma paradossale del grande misantropo, del solipsista assoluto, dell’emarginato per scelta. La sua è appunto una scelta, monastica e narcisa, di chi odia il mondo e disprezza i propri simili. Se essi scompaiono la solitudine smette di essere una scelta, di essere sdegno altero delle cose, e diventa mera fattualità, accettazione passiva della realtà laddove l’atteggiamento originario era l’esatto opposto, vale a dire il rifiuto della rassegnazione. Persino la misantropia sembrerebbe una verità contestuale, dipendente dalle condizioni esterne (come tutte le forme d’odio in fondo) e il solipsismo senza il contraltare dell’alterità sembra non sussistere, supremo paradosso: la convinzione che nulla ci sia al di fuori di me regge solo se ci sono gli altri.

La solitudine che il protagonista definiva “privilegio”, un lusso, è ora una condanna. Sensazione che raggiunge il suo culmine quando si accorge di aver smesso di sognare, e talvolta di dubitare perfino di respirare, proprio per il fatto che non c’è più un’umanità a certificare questi atti, o a fornirne i contenuti. La solitudine impostasi con vigore per tutta la vita era dettata da una generale “paura degli uomini”, più che da un livore nei loro confronti, frutto non dell’odio ma del timore, nell’intento di scansare, forse, le sofferenze che una vita “fuori di sé”, fuori dal mondo privato, avrebbe potuto recare. La struttura del racconto di Morselli è paradossale proprio in questo: per una specie di contrappasso ora il mondo privato, quello dell’io, viene a coincidere con il mondo esterno, non c’è più divisione tra le due realtà, ed è colui che lo aveva sempre desiderato a subirne le conseguenze. La sua non è perciò ira viscerale, ma una nausea atavica e stomachevole. È perciò incline perfino ad assolverla questa fastidiosa umanità, che ha sofferto molto, è stata assediata dalla sofferenza e scomparendo, assurgendo simbolicamente al cielo, si è riscattata finalmente. La scomparsa dell’uomo non dà pace solo al mondo, ma pure all’uomo.

E, insieme agli altri, scompare anche il suicidio. Pensiero che lo aveva accompagnato tutta la vita, presentandosi alla sua mente nei minimi dettagli, e al quale si era in più occasioni accostato. Le cause spaziavano dai mutamenti interni (la malattia inspiegabile e il “ricatto” della diagnosi ad oltranza) a quelli esterni (la distruzione della vallata circostante per far spazio alla modernità2 ). Il desiderio di eclissarsi innesca la voglia di suicidio: “andarmene senza lasciar traccia”. L’ironia è che volente o nolente è ora unico abitante della Terra, unico a poter lasciar segni. Il resto degli uomini si è eclissato come voleva fare lui, e anche il suicidio (che sia ribellione, astio, presa di posizione, fuga alla chetichella) smette di avere un senso.
L’ultimo tentativo, quello eseguito la notte stessa della dissipatio collettiva, è fortemente simbolico: vorrebbe annegarsi in una caverna, sconosciuta ai più, al cui interno si trova un’ansa con un pozzo e, in fondo, un laghetto chiuso chiamato Lago della Solitudine. Si fermerà sul ciglio del burrone, la mente vagolante tra mille pensieri, e vi rinuncerà.

Scampare il suicidio fisico significa rigettarsi in quello quotidiano, la fatale tranquillità giornaliera, con la cadenzata presenza altrui. Il protagonista – almeno in questa fase – non sembra il classico aspirante suicida per rancore verso gli altri, non li vuole disperati e afflitti; è lucidamente consapevole che i sentimenti hanno durata breve e l’incessante spettacolo dell’orrore deve andare avanti. Una percezione della propria inutilità, o quantomeno della indifferenza che a sua volta il mondo ha nei suoi confronti (anche qui non in senso autocommiserante ma fattuale; è vero che va avanti senza di lui e il fatto che, dopo l’eclissi, sembri andare avanti anche senza gli altri è indicativo. Non c’è un’enorme differenza tra io e gli altri, entrambe sono categorie inesistenti o in dissolvenza. Qui si nota come Morselli conduca a una soffusa, travolgente, “estroflessione dell’io” e del non-io. Identificando mondo e io (di dio neanche la controfodera) tutto assume quel connotato di placida disperazione che non può che finire con l’eclissi totale. Irredimibile, inevitabile, così naturale da risultare rasserenante). Quindi perché continuare a sostarvi? Stare al mondo è come rimanere a un party di estranei, standosene nell’angolo.

J. M. W. Turner, The Beacon Light

L’io è ora la Storia, l’Umanità, quindi la memoria, non c’è nulla al di fuori dell’io. E in questa situazione violentemente assurda la “risposta fisiologica” che suggerisce Morselli è l’immobilità, come a dire l’apatia; tutto l’opposto della “rivolta”, la risposta camusiana all’assurdo. Ed è difficile non pensare che tale situazione descriva uno stato d’animo normale, diffuso, travestendolo da reazione abnorme e singola. L’assurdo non è qualcosa di misterioso, è ciò che ci sovverte la mente, ci aggredisce fino a non poterlo negare. Da ciò il ritiro, l’annullamento di sé. Come coniugare questo sentimento di sparizione individuale col “fatto” della sparizione degli altri è il vortice delirante nel quale è invischiato il solitario protagonista-pensatore. Una delle soluzioni è il consapevole rifiuto della socialità, anche di quegli elementi che astrattamente sopravvivono all’evaporazione collettiva. “Non mi convince la tesi che ogni esprimere, anche il più privato, supponga un comunicare”: qui si sottolinea la differenza, mai abbastanza considerata, tra espressione e comunicazione, dove la prima è condizione necessaria per il verificarsi della seconda, ma non vale il viceversa. La distinzione, che permette anche di considerare forme di espressione più sofisticate prive di un intento correttamente comunicativo, come ad esempio l’arte o la poesia (anzi Umberto Eco già negli anni ’60 mostrava come il “rumore” e l’ambiguità formale e materiale fossero condizioni indispensabili per poter distinguere, ad esempio, un testo poetico da un annuncio televisivo), fa emergere così una asimmetria sostanziale. Nel momento in cui l’io morselliano rifiuta, a ragione, l’appiattimento di ogni forma di espressione sul versante della comunicazione, deve fare i conti con lo svuotamento dell’espressione nel contesto in cui la comunicazione non può aver più luogo: quello della sua singolare condizione di sopravvissuto. È possibile esprimersi “privatamente” (condizione minima per, eventualmente, poter anche comunicare)? Wittgenstein si era posto lo stesso problema quando negli anni ’50 argomentò a favore dell’inesistenza di un “linguaggio privato”. Seguiamo brevemente, e semplificando, l’argomentazione.

Wittgenstein parte dall’assunto che il significato di una parola dipende dall’uso che se ne fa, cioè da come la comunità linguistica dei parlanti la utilizza. L’individuo singolo, anche nella ipotesi in cui voglia costruire un linguaggio privato, può utilizzare la parola (poniamo “libro”) solo se lo fa correttamente. Vale a dire “coerentemente con la sua definizione”: se usa “libro” nel suo linguaggio privato per indicare la sedia, dovrà continuare a farlo (o al massimo a riferirsi a un range limitato di oggetti da nominare in tal modo), soprattutto se lo usa all’interno di uno stesso discorso. Il criterio di “coerenza-con-la-definizione” è soddisfacibile solo se esistono regole indipendenti dal parlante: altrimenti egli non potrebbe distinguere tra “usare correttamente la parola libro” e “avere l’impressione di usare correttamente la parola libro”; la giustificazione normativa deve essere cioè extra-soggettiva. Quindi il soggetto non può inventarsi regole di coerenza in base alle quali avere conferma del corretto uso di una parola, ma le deve prendere dalla comunità (anche laddove decidesse di non rispettarle, perché dovrebbe mantenere una coerenza interna3 ).

Per cui non c’è un linguaggio privato, non c’è linguaggio che non sia fondato socialmente4. Ma nel momento in cui la collettività non esistesse più? Non cambia molto dal momento che prima c’era, e il linguaggio, come le automobili, è rimasto lì, relitto del vecchio mondo. Se il protagonista se ne inventasse uno suo dovrebbe comunque imporgli delle regole, per poter pensare sensatamente, ed esse – nell’impossibilità di essere intersoggettivamente definibili – tali non sarebbero. Perché avvenga comunicazione c’è bisogno di almeno due persone nel mondo, ma per esprimersi? Non si può evitare di parlare con sé stessi, il pensiero non è altro che questo, ed è d’altronde l’unico uso del linguaggio rimasto nella situazione morselliana; e questa non può che essere “espressione”, ma non comunicazione. L’asimmetria causale tra le due, che già c’era, rivendicata dal protagonista contro una società che voleva dimenticarlo, si è radicalizzata al punto da diventare un abisso, dove una delle due istanze ha definitivamente inghiottito l’altra.

J. M. W. Turner, Storm at Sea

Se l’espressione è possibile è perciò possibile la sua forma più “alta”, l’arte? Qui probabilmente la risposta è molto più semplice: no. Il protagonista affronta due esperienze artistiche: si imbatte, in un museo d’arte moderna, in un’opera d’avanguardia, un telefono col quale poter contattare tutto il globo; prova a usarlo ma ovviamente non ottiene risultati. Guarda solo al lato “comunicativo” dell’opera, come se non avesse null’altro da esprimere, e in effetti il discorso sulla comunicazione che essa voleva veicolare è vanificato dal nuovo stato delle cose (ecco dunque un caso raro di comunicazione la cui assenza inficia a tal punto l’opera da eliminarne il lato espressivo; ma è forse solo l’approccio sbagliato dell’unico fruitore a influenzarne gli esiti artistici). Si imbatte anche in monumenti, o neo-monumenti, come l’hangar divenuto cattedrale, custode di un passato estinto, vanitas di fronte alla morte e alla sparizione. Segni di un desiderio tutto umano di “lasciar tracce”, di quella che Maurizio Ferraris ha chiamato “Documentalità”, il bisogno di lasciar documentazione, memoria di noi. Ora che il solitario abitante umano è solo testimone e sola memoria, destinatario e creatore della Storia, emerge la vanità di questa operazione, molto più che se non fosse rimasto nemmeno uno spettatore delle nostre vestigia. E invero egli stesso prova il bruciante desiderio di essere ricordato da qualcuno, ora che nessuno può farlo. In un mondo nel quale non ci sono almeno due persone l’arte sembra perciò non solo inutile ma impossibile da attuare. Sempre il filosofo Ferraris in La Fidanzata Automatica delinea una teoria estetica minimale e normativa, sulla quale tutte le altre dovrebbero fare affidamento.

L’arte si identifica semplicemente con l’insieme delle opere e sono esse quindi a dover essere definite. Le opere sono innanzitutto oggetti fisici dove per “oggetto fisico” si intende, principalmente, un atto iscritto, cioè un pensiero o una concezione tradotta quantomeno in iscrizione, quindi impressione, quindi (banalmente) traccia. Ed ecco la parola che indica il desiderio di lasciar impronte di sé. Traccia è anche un qualunque documento o una qualunque altra iscrizione e le opere sono isomorfe a documenti5, con la differenza che suscitano emozioni (“cose che fingono di essere persone”, che ci emozionano come fossero vive). Ciò vuol dire che, oltre che oggetti fisici (atti iscritti), le opere sono oggetti sociali, presuppongono una comunità di fruitori: “L’opera è la fissazione dell’atto sociale”, da ciò “la rilevanza della memoria e delle iscrizioni nella costruzione della realtà sociale” (p. 98). Esistono perché esistono degli uomini (almeno due, quindi) e sono figlie dell’anelito alla “documentalità” e dei processi di decodificazione e interpretazione attuati dalla comunità umana, tutti atti fortemente sociali. In questo senso parrebbe sensato affermare che, finché c’è anche un solo uomo, il desiderio di lasciar tracce può non estinguersi (il protagonista tenta la costruzione di un altare all’umanità dissipata) ma l’effettiva documentalità, tra cui rientra l’espressione artistica, non può compiutamente attuarsi (e in effetti è inutile e fallimentare non solo l’altare ma persino gli scialbi tentativi di scrittura, nei quali si cimenta in un momento di sconforto6).

Tra impossibilità e rifiuti parrebbe che il protagonista non abbia molto da dire, se non su sé stesso. E qui attua il rifiuto più radicale e definitivo: rifiuto dello psicologismo e del monologo interiore. Morselli ci parla della sua scrittura, del suo lavoro, rigetta forme di analisi interiore dell’io e l’ultimo uomo non fa altro che guardarsi intorno “dall’esterno”, come se di sé non ci fossero altro che gli occhi. Il monologo interiore, emblema della letteratura del Novecento, è definito forma del “subpensare” e del “subsentire”, artificioso e inconsistente, vittima del pregiudizio del predominio valoriale dell’io sul mondo. Per paradosso risulta ancora più artificioso e pleonastico ora che l’interiore e l’esteriore coincidono, ora che “la terza persona e qualunque altra persona, esistenziale o grammaticale, s’identificano necessariamente con la mia. Non c’è più che l’Io, e l’Io non è più che il mio. Sono io”. Eppure si chiederà spesso, non potendolo realmente verificare in solitudine, se egli c’è ancora, o se c’è mai stato, o se conti qualcosa in una realtà che per la gran parte è non-io (com’era anche prima della dissipazione di massa). E così gioca coi suoi stessi paradossi, ma non si analizza mai. Rovesca il celebre motto cartesiano, divertito (se poi abbia senso la risata in un mondo vuoto è tutt’altra questione): “Io sono, dunque penso”. La certezza ontologica non deve poggiare sulla esistenza altrui. “La società era semplicemente una cattiva abitudine”: rifiuto dello psicologismo e del sociologismo sono due facce della medesima moneta. Morselli reagisce sarcasticamente all’ossessione a lui contemporanea per il sociale e la collettività, il vezzo di scrivere, pensare, esistere, caratterizzare sé stessi e il proprio ruolo per gli altri, in funzione di essi. I macchinari, e lui stesso, macchinario supremo, funzionano senza che nessuno li azioni.

L’urlo solitario di Morselli significa non solo indipendenza di pensiero e azione (dagli altri, da dio e in definitiva anche dall’io come costruzione) ma anche autonomia affettiva. Suggerisce, mettendo insieme tutti i lacerti e le disiecta membra di un discorso sparso e lucidamente delirante, che l’esigenza di comunicare non sia una vera necessità interiore ma il frutto della nostra dipendenza emotiva ed esistenziale da chi ci circonda. Come a voler dimostrare che l’uomo non è animale sociale, ci è diventato. E al contempo mostra quanto questo assunto così sentito sulla sua pelle cozzi con ciò che l’io sente e vive in molti momenti della narrazione, specie dinanzi alla sparizione di ciò che è vitale solo in presenza di un’umanità.

Si potrà obiettare che questo è in fondo un auto-inganno, l’illusione di qualcuno che ha bisogno di farsi piacere l’emarginazione, la solitudine e l’incomprensione, che sia il protagonista costretto dalla silente apocalisse, o lo stesso autore che vergava pagine di orgogliosa autarchia in un mondo che lo rifiutava e dal quale avrebbe presto preso congedo. Ma a noi interessa la possibilità filosofica, narrativa, di arredare una realtà senza il soggetto, neutra, ma in cui l’occhio vigile di un soggetto ha spazio di visuale.

Caspar David Friedrich, Abendlicher Wolkenhimmel

Nell’epoca pre-dissipazione il futuro ultimo uomo non faceva altro che sognare una realtà in cui gli altri non esistessero più, ma non una realtà “del soggetto”, esperita solo da esso e in esso creantesi; ma la realtà nuda, senza coscienza a presiedervi. Però con la sua presenza silente, con la possibilità di assistervi. Fare epochè, mettere tra parentesi le persone e poter godere d’una realtà priva di soggettività, compresa la propria. Non è un filosofare il suo, ma una fantasticheria da vivere e sentire senza la pretesa di possederne l’esclusiva, ma non effettivamente comunicabile (da qui l’urgenza di segnalare che esistono spazi altrettanto rilevanti al di fuori della comunicazione). Il suo medico di allora gli suggeriva, per guarire dalle nevrosi, di distaccare il suo io, di “pensare a tutto tranne sé stesso” e lui finisce per eliminare anche il sé e proseguire a osservare il mondo. Ma non è un odio autoriferito la scaturigine di questa epochè: “Ci si deve accettare in blocco, ci si deve lasciar vivere”. È un solipsismo pragmatico, causato dal fastidio per gli ostacoli che vengono posti al puro vivere; così come lascerebbe in pace gli altri lui vuole esser lasciato in pace.

Qualsiasi sostenitore dell’incomunicabilità, dell’impossibilità per gli uomini di comprendersi realmente, come in parte anche il secondo Wittgenstein, non è però ben visto dal protagonista, perché non c’è astrazione filosofica nel suo solipsistico baloccarsi. Non è vero, insomma, che sia sempre stato solo: i rumori che ora non ci sono più prima c’erano, c’è poco da teorizzare. L’autore imbastisce un laboratorio di solipsismo radicale che in qualche modo confuta lo stesso solipsismo o posizioni fortemente soggettivistiche o idealistiche (volendo anche l’anti-realismo alla “Matrix”): è così estrema l’esperienza descritta che, se fossero vere le implicazioni gnoseologiche di queste teorie, l’ultimo uomo non saprebbe distinguere tra il mondo prima e quello attuale. In alternativa essa è la riacquisizione della coscienza sottesa all’esperienza del mondo, il disvelamento genuino della realtà solipsista. Cosa ostacola questa ipotesi? La presenza degli oggetti, delle tracce. Si profilano due opzioni:

1) sono resti lasciati da egli stesso (unica coscienza) nella sua frenesia pre-disvelamento.
2) sono immaginati anch’essi, come lo erano gli altri individui. Ma allora non c’è nessun disvelamento, non c’è verità percettiva ma solo la decisione inconscia di non rappresentarsi più gli altri e lasciare tutto il resto.

Il solipsista allora, nella situazione morselliana, è individuo dalla coscienza intermittente e lacunosa (che sarebbe poi l’unico tipo di coscienza possibile). La posizione solipsista si complica ulteriormente, quindi, se egli era realmente l’unico uomo, anche prima.
In un dialogo dei tempi del ricovero, un certo Mylius espone al protagonista la sua teoria dei vivi come non-morti, la vita come semplice fase di transizione, concretamente non distinguibile in modo netto dall’apatia del cadavere. In essa emerge un’altra mancanza dell’io: non riesce neanche a essere misura di demarcazione tra l’esperienza della vita e quella della morte. Come può essere protagonista della solitudine? “Ho sfiorato a lungo il solipsismo, e non sono, invece, né introflesso né introspettivo” dice il narratore. Un desiderio di veder silenziare tutto (e però vederlo appunto, in quanto occhio) ma nessuno spasimo a rinchiudersi in sé, a ripiegarsi sull’io, sul soggetto. Da qui poi Morselli allarga il discorso, mostra in realtà come il solipsismo senza introspezione non sia l’eccezione ma la norma.

Emerge il gap di qualunque posizione che privilegi l’assolutezza del soggetto: in quanto “io” essa è argomentazione sempre convincente ma chi la espone è a sua volta soggetto, egli parlava per sé! Assomiglia un po’ all’ossessione per il monologo nietzscheano: quando il filosofo tedesco parlava di un uomo speciale, superiore agli altri, molti vi si sono riconosciuti, ma egli parlava di sé, ed è improbabile sia descrizione adeguata del resto dell’umanità che lo legge. Appoggiare questo genere di argomentazione dal proprio punto di vista significa appoggiare letteralmente un’altra posizione. Il gap argomentativo radicale del solipsismo. (Certo, l’altro, colui che argomenta, non sono altro che io e nel rivedermi in lui mi do ragione da solo; ma di questo la situazione morselliana ci mostra la problematicità anche epistemica7).

Ma perché il protagonista, in più occasioni, nonostante la ricercata “fattualità” di un mondo senza io, astrae tutto? Perfino il latte che munge e beve diventa un Ur-Milch! È inevitabile una lettura cosmologica, olistica, conseguente all’essere l’unico al mondo; il soggetto non solo si annulla per volontà ma anche per necessità, confondendosi con ciò che è fuori. È improprio perfino dire che stia realmente “astraendo” essendosi modificate le condizioni dell’esperienza del reale. Se in effetti il suo è l’unico latte munto non sta astraendo dal particolare all’universale nel dire che esso è la quintessenza del latte: è semplicemente vero. Morselli è come se avesse scoperto dove si situa l’iperuranio platonico: in un mondo senza soggetti, o meglio con un unico soggetto, ma non derivato da esso. La sola cosa che il protagonista non astrae mai è proprio sé stesso. Non si scruta, non si indaga (“renitente come sono a scrutarmi appena un dito sotto la pelle”), come se di tutti gli oggetti gettati nel mondo l’io risulti il meno interessante. È vero che nella situazione morselliana anarchia e monarchia coincidono ma il poter fare ciò che si vuole è magra consolazione quando ottenuta per assenza totale della società; come se la libertà avesse senso una volta limitata. Portarsi sottobraccio la Gioconda a casa non è altrettanto eccitante e divertente (né significante) se non c’è una comunità di persone a trovarlo bizzarro, a dichiararlo illegale, o a conferire un qualunque valore al gesto.

Dissipatio H.G. mostra l’inconsistenza del soggetto narrando di un mondo in cui non sembra esserci altro, sfruttando il nostro radicato pregiudizio che la realtà coincida con la nostra chiave di accesso ad essa. E lo fa ragionando, ma disperatamente. Una storia intrinsecamente paradossale e contraddittoria, esperimento estremo di comprensione della realtà attraverso l’eliminazione della atavica necessità di comprenderla.

  1. Sembra che tutto sia fermo al giorno della dissipazione. Eternità come persistenza del provvisorio, quindi dissoluzione del tempo; e parrebbe questa la causa primaria della dissoluzione dell’io (come se tra tempo esterno e interno ci fosse un’intima connessione). []
  2. Va detto però che il misoneismo morselliano è di facciata, è più una nausea verso la realtà che un odio per il progresso. []
  3. Che è una metaregola, ed è infatti più corretto dire che la comunità linguistica fornisce le metaregole. []
  4. L’argomento copre i paragrafi dal 138 al 242 delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, coinvolgendo numerose questioni e definizioni da lui date, e producendo altri argomenti su altre faccende ancora. Per una sintesi estrema e interessante (e non accademica) suggerisco di rifarsi all’esposizione di David Foster Wallace in Autorità e uso della lingua, contenuto nella raccolta Considera l’aragosta (Einaudi, 2005). []
  5. “[…] un atto e un’iscrizione sono la condizione di possibilità tanto di un’opera quanto di un documento” (M. Ferraris, La Fidanzata Automatica, Bompiani 2007, p. 122) []
  6. “L’opera è il risultato di un atto che coinvolge almeno un autore e un destinatario (anche chi scrive solo “per sé” postula, nella propria attività, un destinatario)” (ivi, p. 100) []
  7. Il triangolo soggettività-intersoggettività-oggettività (o presunta tale) funziona poco in assenza di almeno un altro individuo. []