Underworld e il potere evocativo della parola

Let the language shape the world.

 

La prima volta che ho letto Underworld è stato per un esame all’università. Fino a quel momento il romanzo, con le sue quasi mille pagine e la promessa di una malinconica nostalgia evocata dalle Torri Gemelle in copertina, mi aveva come tenuta a distanza. Il corso trattava, se ben ricordo, delle possibilità combinatorie del testo letterario; quello che senza dubbio ricordo è stata la potenza netta e cristallina del linguaggio di DeLillo, la sua precisione disvelatrice e il peso costante del tempo: Underworld è un romanzo che del tempo si forma e si informa. Sicuramente lo fa a livello di architettura della trama: il libro è, infatti, narrato in senso cronologicamente inverso e circolare, si apre con un prologo ambientato nel 1951, prosegue diviso in sei parti che vanno dal 1992 al 1951 e si chiude con un epilogo ambientato nel 1992. Ma il tempo, nel romanzo, ha altre e più ampie sfaccettature: elemento cardine, tematico e di contenuto, declinato nella più ampia e piena accezione di Storia.

DeLillo è stato uno scrittore contemporaneo ai romanzieri postmoderni (e il passato prossimo è da intendersi per questi ultimi, non per DeLillo, che sta benissimo), e Underworld a volte segnato come figlio di questa produzione culturale. Se è vero che ci sono delle affinità, è anche importante sottolineare che, se in Underworld il tentativo di recuperare il senso della storia restituendolo all’esperienza vissuta è fondamentale, i grandi classici postmoderni hanno invece guardato alla dimensione storica soprattutto come un serbatoio a cui attingere, un repertorio di immagini a cui fare riferimento con voracità (basti pensare, a tal proposito, a Gravity’s Rainbow di Pynchon). La prospettiva del tempo passato è stata schiacciata nel suo aspetto puramente testuale, e si è guardato al passato con ironia, parodisticamente, traducendolo in fonte di riflessione e di critica sul proprio linguaggio e sulle proprie opere. L’opera postmoderna, nella sua autoreferenzialità, nel suo essere metafiction — come ha scritto Linda Hutcheon — rimastica e sputa documenti, personaggi, eventi della storia, in un processo che la conduce a riflettere su se stessa, sulla propria natura di finzione e sulla criticità di ciò che la circonda. Il confine tra storia e fiction è confuso, e l’historiographical metafiction si serve di questa confusione proprio per criticare quella cultura di cui fa parte anch’essa e di cui è prodotto, attraverso la doppia arma della parodia e dell’intertestualità. Aprirsi alla storia non è possibile in maniera innocente; è una continua rielaborazione di un passato che è diventato testuale esso stesso.

In Underworld la storia si libera della bidimensionalità testuale e della deformazione ironica per assumere altri significati: prima di tutto, quello di pura forza generatrice del romanzo. Come spiegato dallo stesso DeLillo in un articolo dal programmatico titolo The power of History1, Underworld è nato quasi per caso, come un regalo fatto dalla history allo scrittore. Questi, leggendo sul New York Times del quarantesimo anniversario di una famosa partita di baseball, ebbe l’idea di fare ulteriori ricerche; queste ricerche, portate avanti nel vecchio seminterrato della biblioteca locale, hanno fatto sì che DeLillo trovasse la prima pagina del New York Times del quattro ottobre del 1951: «This was history in the microwave, the news pages speeding across the screen in a black and white blur». Il New York Times dell’epoca accostava su due colonne -stessi caratteri, stessa lunghezza dei pezzi- i due eventi accaduti, per coincidenza, lo stesso giorno dello stesso mese dell’anno 1951: la vittoria dei Giants contro i Dodgers e il secondo esperimento sovietico con la bomba nucleare, l’evento che darà il via alla Guerra Fredda. Il fuoricampo di Thomson, presto conosciuto enfaticamente come The blast that ‘round the world, aveva trovato il suo contrappunto, la sua esplosione gemella. Punto di partenza di Underworld è stata una semplice giustapposizione, una simmetria, che faceva però intuire dietro di sé qualcosa di più ampio: l’eco del potere della storia.

La Storia, presente e passata, entra in Underworld attraverso una rappresentazione quasi antropologica del cinquantennio che va dall’inizio della Guerra Fredda fino agli anni Novanta. Nel fare ciò, l’opera di DeLillo si rivela complessa e ricca di sfaccettature, non riconducibile a una sola dimensione o categoria interpretativa; vi è una precisa corrispondenza tra forma e contenuto, ed entrambi svelano diversi strati e possibilità concettuali. Underworld, ibrido già nella trattazione della struttura romanzesca, nel suo saper risolvere in un gioco di delicati equilibri la contrapposizione tra afflato enciclopedico e forma chiusa del romanzo, si dimostra altrettanto sfuggente all’univocità nel rapporto che instaura con la dimensione storica. In altri termini la tensione e l’ambivalenza inscritti nella struttura del romanzo si riverberano anche nell’idea stessa di Storia, che in Underworld si rivela essere duplice. C’è la Storia dei grandi eventi e delle grandi personalità; la famosa partita di baseball del prologo ne è un perfetto esempio, come anche il ballo in bianco e nero di Truman Capote e la figura di J. Edgar Hoover (capo e riformatore dell’ FBI), una delle voci narranti; e c’è la storia con la “s” minuscola, quella piccola, frammentata, quotidiana, di tutto ciò che gravita nel pulviscolo del familiare e del comune, tutto ciò che la Storia (con la s maiuscola) tralascia di raccontare. La via attraverso cui passa questa duplice concezione della storia, questa contrapposizione tra Storia e storie, lo strumento che permette di immaginare e vedere ciò che c’è oltre il racconto ufficiale, è il linguaggio.

Il linguaggio di DeLillo possiede una grana e un peso particolari: non si concentra sull’aspetto ludico e ironico e non tenta di riconsegnare al romanzo una funzione assolutistica e totalizzante. Crea, piuttosto, un triangolo linguaggio-mondo-romanzo, assumendo così una configurazione particolare; e come già accade per l’uso e l’articolazione del tempo, la parola acquisisce uno spessore altro, quasi una materialità. La riflessione sul linguaggio è propria della scrittura di DeLillo da sempre: linguaggio come medium necessario e imprescindibile a veicolare la nostra percezione del mondo e il suo riflesso sulla carta, linguaggio come centro gravitazionale delle sue opere. In Underworld è esplicitamente operato un accostamento tra la parola e la storia; se l’elemento della temporalità diventa protagonista tematico di Underworld allargandosi in una prospettiva storica, questo avviene, concretamente, grazie al linguaggio. Il linguaggio, inteso come performance e come principio creatore, è la via attraverso cui passa la rielaborazione del mondo, in questo caso del mondo dell’autore, che si vivifica nella parola scritta. La parola, per DeLillo, ha un grandissimo potere evocativo; è lo scalpello espressionistico che scava nella storia passata e dimenticata, riportandola alla luce. La parola può essere, anche, uno strumento di redenzione, ciò che contribuisce alla costruzione e alla definizione di un’identità personale.

La storia di Nick, il protagonista (se così può essere definito, in un’opera di tale spessore e complessità) di Underworld, è esemplare. Dopo aver sparato, diciassettenne e in qualche modo inconsapevole, a George Manza, George il cameriere, Nick finisce prima in un centro detentivo, un riformatorio, e successivamente viene mandato dai gesuiti. Qui, durante il suo “periodo da preti” -raccontato nella quinta parte del romanzo- c’è un dialogo significativo tra Padre Paulus (direttore del collegio gesuitico dove Nick si trova), e il Nick adolescente del 1955. Il gesuita insegna al ragazzo a nominare ogni parte della scarpa, dalle stringhe, alla tomaia, al rinforzo. «Non l’hai vista [la scarpa] perché non sai guardare. E non sai guardare perché non conosci i nomi»2, dice il religioso. Saper dare un nome alle cose è essenziale per poterle definire, per poter dar loro dei contorni precisi. Vivere nel mondo significa imparare i nomi, liberarsi dall’horror vacui e dal senso di irrealtà; convincersi di vivere «nella realtà, in modo responsabile»3. Nick vuole incanalare ciò che è stato, trascendere il suo atto criminoso, dis-inventarsi, disfarsi, e poi ridare forma a sé stesso attraverso il linguaggio. È un vero e proprio atto di reshape. Come ha affermato lo stesso DeLillo in un’intervista con Gerald Howard, è la stessa cosa che fa uno scrittore, per superare i limiti del proprio background culturale e sociale e aprirsi al mondo. È questo il senso della frase pronunciata da Nick alla fine del dialogo avuto con il gesuita: «questo è l’unico modo al mondo di sfuggire alle cose che hanno fatto di te quello che sei»4.

Tuttavia, di questo passato Nick ha anche nostalgia; strane ombre percorrono i corridoi della sua mente, ed è colto da un senso di struggimento per quelli che chiama “i giorni del disordine”: «Vi dirò cosa desidero di più», afferma a un certo punto, «tornare ai giorni del disordine, quando non me ne fregava un accidente o un cazzo o non davo un centesimo. […] Li rivoglio, i giorni in cui ero giovane sulla terra, guizzante nel vivo della pelle, imprudente e reale»5. È un desiderio, e i desideri venati di nostalgia non si avverano, sono irraggiungibili. Il tempo scorre, sfugge dalle dita, e con lui altre cose scompaiono, e questo crea un senso di desiderio continuo, ininterrotto. «Sono i desideri su vasta scala a fare la storia»6, ci dice lo stesso DeLillo nella prima pagina del prologo, quando ci presenta Cotter, un ragazzino che ha saltato scuola per andare a vedere la partita di baseball e che si sta preparando a saltare i tornelli. Se la storia è desiderio, e tutto sta scivolando irrimediabilmente nel passato, allora solo il linguaggio ha il potere di evocare questo desiderio, di riportarlo in vita sulla carta, di richiamare alla memoria i giorni del disordine. Il semplice accostamento del verbo coniugato al gerundio presente e di quell’avverbio così perentorio, così definitivo, della frase che chiude il prologo, «Tutto sta scivolando indelebilmente nel passato»; questa immagine così apparentemente incongrua ci restituisce il senso del romanzo, il tentativo di recuperare questo passato che in fondo è incancellabile, e spiega la costruzione cronologicamente inversa di Underworld. Il passato può essere recuperato, e il romanzo ne è il tentativo: la narrativa è la nostra seconda occasione.

Il libro risale la corrente del tempo, e il linguaggio è lo strumento che permette questo scavo archeologico nel passato, è rimedio al desiderio e al senso di nostalgia. Il linguaggio è ciò che ci permette di riconnetterci alla memoria di ciò che si è vissuto. Underworld ruota intorno al senso di perdita che i suoi personaggi vivono; la perdita è iscritta nel fuoricampo stesso. Il fuoricampo, l’esperimento sovietico e il colpo di pistola di Nick sono tre scoppi, i tre “botti che hanno fatto il giro del mondo”, e che hanno innescato una logica distruttiva nella storia americana. La soluzione è scavare nelle centinaia di trame e vite sepolte per riscattare la storia dalla sua inevitabile decadenza. La parola è ciò che riporta in vita la quotidianità delle vite comuni, la routine di tutti i giorni, ciò che permette di rivelare le miserie e nelle piccole gioie del nostro vicino di casa o dell’uomo che abita due strade più in là. È il mistero e la meraviglia delle decine di esperienze individuali che si muovono sullo sfondo dell’America postbellica.

La lettura di Underworld è, quindi, prima di tutto un’esplorazione nella memoria autobiografica di DeLillo e di tutto ciò che ha popolato la sua infanzia e la sua giovinezza, è l’immagine di un viso colto per strada di sfuggita, la somma dei film visti e dei libri letti, ma è anche molto di più. La parola è, si è detto, ciò che ci riconnette alla memoria; la sua è una funzione quasi pragmatica, nella sua capacità di rievocazione di un mondo, di un passato sfuggito alla riproduzione veloce di Internet e della televisione. In questo senso la scrittura di DeLillo è non solo una forma di storicizzazione, di indagine nei documenti di un’epoca precedente, ciò che permette la risalita nel tempo dell’esperienza individuale e collettiva della storia americana. È il tramite con cui sfuggire al risucchio spersonalizzante e individualistico della tecnologia, ciò che ci fa riconnettere con l’umano.

Il linguaggio, la narrativa e i processi di rappresentazione restano i mezzi attraverso cui passa l’esperienza del mondo che possiamo provare a condividere, sfuggendo all’isolamento di Internet e della televisione. «Il mondo reale è pieno di solitudine esistenziale. Io non so cosa stai pensando o che cos’è che hai dentro, e tu non sai che cos’ho dentro io. Nella letteratura penso che in un certo senso riusciamo a saltare oltre questo muro»7, ha affermato un altro grande della letteratura nordamericana, David Foster Wallace.

È ciò che DeLillo riesce a fare con Underworld, liberando il suo racconto dai vincoli di una Storia piatta e già scritta, aprendola al mistero e alla rievocazione della parola, riuscendo a tratteggiare con fedeltà vizi, idiosincrasie e problemi di una società americana stretta nella morsa silenziosa del terrore sovietico, o persa nell’adorazione per il baseball, o incantata dalla vastità della Rete. Questo tentativo di tornare al passato attraverso la scrittura è un modo per rispondere al senso di vuoto e alla perdita di esperienza che i personaggi vivono, un tentativo di sfuggire alla sensazione di inautenticità che rende la realtà un simulacro mediatico, costruito dalla TV (iperrealtà, come la chiama Matt Shay, il fratello di Nick).

Il linguaggio plasma il mondo e ce ne riconsegna una visione laterale, si insinua sotto la crosta della Grande Storia per liberarne i conflitti e le contraddizioni e raccontarci una versione altra, possibile. In Underworld, DeLillo inventa un vecchio film di Eiženstein chiamato Unterwelt, proiettato al Radio City Music Hall nell’estate del 1974, quindi in uno dei capitoli centrali del libro. Il film racconta di un futuro apocalittico post guerra nucleare e si chiude con una scena particolare, un effetto di time-lapse, ma invertito:

[…] poi ci fu un lungo silenzio a schermo bianco e infine un volto che si trasfigurava in una serie di inquadrature sovrapposte, perdendo gozzi e piaghe, aprendo un occhio cucito, ed era orribile e disgustoso, d’accordo, ma anche meraviglioso, una sequenza estranea all’azione del film, un desiderio preciso e visibile che ti collegava direttamente al concetto alla base del film, e l’uomo nasconde i suoi segni e le sue cicatrici e sembra ringiovanire, poi il viso comincia a impallidire fino a dissolversi nel paesaggio.

La tecnica eisensteniana, il montaggio invertito che mostra le mutilazioni portate dalle armi nucleari e dalla spazzatura, potrebbe dirsi, in un certo senso, una narrazione (una tecnica) in una narrazione (un film, per giunta inventato) in una narrazione (il romanzo) di ciò che è possibile fare, appunto, narrando: della possibilità di riscatto che ti dà il ripercorrere la storia. Underworld cerca, attraverso la sua forma onnivora, di dimostrare la complessità e le possibilità di una storia che si salva dall’essere frammentata e rottamata, come accade nei video del Texas highway killer o nel filmino Zapruder, ma trova nella parola una possibilità di una rigenerazione.

  1. Don DeLillo, The power of History, New York Times, 7 settembre 1997: “Era la storia al microonde, con le pagine del giornale che scorrevano sullo schermo in una confusione di nero e bianco”. []
  2. Don DeLillo, Underworld, Einaudi, Torino, 1999, trad. di Delfina Vezzoli. p. 577. []
  3. Ivi., p. 84. []
  4. Don DeLillo, Underworld, cit., p. 580. []
  5. Ivi., pp. 857-862. []
  6. Ivi., p. 5. []
  7. David Foster Wallace, in Stephen J. Burn (a cura di), Un antidoto contro la solitudine, Minimum Fax []