Il mistero di Francesca Woodman è complesso, inestricabile dalla figura di lei fotografa e dall’eredità emotiva che il suo suicidio ci ha lasciato.
Gli indizi per risolverlo sono circa 800+5, dove il primo numero rappresenta il corpo della sua produzione fotografica e il secondo quello dei diari. I numeri sono importanti, così come sono importanti la geometria nel suo immaginario, la composizione spigolosa di oggetti bagnati di luce e il contrasto della morbidezza del corpo umano e delle sue ombre.
Per molti Woodman rappresenta un’interprete, un ponte tra la fragilità emotiva e la pellicola; il suo lavoro è stato interpretato con sottotesti femministi, l’estetica paragonata allo spiritualismo, i temi figli di un’emotività fragile e a tratti scossa. La sua produzione è stata prevedibilmente analizzata negli anni attraverso la lente della sua morte precoce, della depressione della giovinezza e del talento interrotti bruscamente.
Grazie alle qualità oniriche delle sue composizioni è avvolta à jamais in un lenzuolo mistico; i suoi sguardi languidi, il nudo di un corpo che si copre di corteccia e carta da parati, i giochi di luce che dirigono l’attenzione al centro della fotografia mentre lei ne diventa solo un dettaglio marginale in un angolo, presentano un personaggio malinconico, e questa percezione è amplificata dalla sua storia personale.
Francesca Woodman è tra le fotografe che hanno suscitato maggior interesse nel pubblico e nella critica negli ultimi cinquant’anni. Un interesse postumo, coltivato con cura da chi, dalla sua scomparsa, custodisce e gestisce il patrimonio culturale che si è lasciata dietro: i suoi genitori.
Nata nel 1958 e figlia di artisti di medio successo, Woodman ha vissuto una vita caratterizzata da un’esposizione al mondo artistico costante, a tratti opprimente. Dal documentario The Woodmans – facilmente reperibile su YouTube –, incentrato prevalentemente sul padre pittore, la madre ceramista e un fratello video artista, la prima cosa che si percepisce è che queste persone non avrebbero probabilmente mai avuto un film a loro dedicato se non per la grande mancanza di Francesca figlia e sorella. L’ampio vuoto che la sua scomparsa ha lasciato, e la narrativa che le si è sviluppata intorno, hanno dato la possibilità ad altri di entrare in scena.
È un vuoto che si avverte nelle parole di chi l’ha cresciuta e amata, ma è anche un confronto tra chi ha passato la vita alla ricerca di un riconoscimento che non è mai davvero arrivato e che ha visto un talento naturale fiorire sotto i propri occhi.
Il primo indizio per capire il mistero che è Francesca Woodman ci è dato dal padre: l’etica del lavoro. L’arte come metodologia e non come impulso, la ripetizione, lo studio. Se dipingi, non aspetti che ti venga l’ispirazione per farlo: vai nello studio e temperi le matite. All’ennesima matita temperata l’ispirazione verrà.
Lo studio è un’evidenza della determinazione di Woodman. La sua produzione è grande, il suo talento anche, e se la prima sensazione nell’osservare il suo lavoro è che ci sia una forte componente d’impulsività, a una seconda lettura appare chiaro che tutto è architettato, tutto è pensato e riflettuto a lungo prima di dare via allo scatto.
Una geometria perfetta di linee e forme, spesso intorno al suo corpo, meno intorno al corpo di altre modelle; a scelta di utilizzare se stessa non era completamente frutto di un narcisismo complesso, piuttosto una convenienza. Lei e il suo corpo erano sempre disponibili; le modelle meno. Per una studentessa la praticità di avere un corpo a disposizione da poter gestire, posare e mostrare è una comodità evidente. Ma anche e soprattutto un atto di autodeterminazione. Il corpo viene usato, sì, ma da se stessa, come parte di una struttura architettonica.
Il modo in cui Woodman utilizza il nudo ha poco a che vedere con il nudo in quanto protagonista. Il corpo umano è oggettificato e ridotto ad avere la stessa critica importanza di una sedia o una porta scardinata, posato in terra o assorbito da un mucchio d’alberi; a volte speculare, in giochi di ombre proiettate, specchi riflessi, o con una intelligente messa in scena – usando chili di farina cosparsi sulla propria forma distesa in terra – trasformato in impronta negativa sul pavimento come se fosse un marchio a fuoco. Tutto è tecnica. Francesca ce lo mostra anche e soprattutto attraverso alcuni brevi video che mostrano la costruzione delle scene, e registrano il suo compiacimento quando il risultato è all’altezza delle sue aspettative. Questi video di qualche minuto sono un ennesimo indizio interpretativo, un tassello importante per connettere l’intenzione e il risultato, aiutati da narrazioni fatte di esclamazioni di gioia e frustrazione.
Per quanto l’immaginario coltivato nella sua produzione si presti a molteplici interpretazioni, ognuna valida e a sé stante, la prima impressione d’impulsività è sì liberatoria per l’osservatore, ma smentita dalla costruzione e dal lavoro metodico e puntuale dell’artista.
Francesca Woodman è morta giovane. A ventidue anni e in un secondo tentativo suicida ha messo fine alla sua vita saltando da un loft nell’East Side newyorkese.
Chi la conosceva la descrive come una giovane donna piena di umorismo; intelligente e spigliata, ma soprattutto ambiziosa. Una vita passata cercando di affermarsi a una velocità inadatta ai propri desideri.
Tra Boulder in Colorado, dove è nata, e New York, una parentesi artisticamente importante fu per lei l’anno trascorso in scambio culturale a Roma; l’italiano imparato nelle innumerevoli estati trascorse in famiglia in Toscana le permise di entrare in circoli artistici e farsi notare per il proprio lavoro, particolarmente alla Libreria Maldoror, dove inaugurò la sua prima esposizione. Qui, in questa libreria che nel tempo è rinata come Il Museo del Louvre, nel 1977 presenta al proprietario Giuseppe Casetti una scatola grigia con i suoi lavori, proclamandosi fotografa; le lettere, fotografie e documenti collezionati da Casetti negli anni saranno oggetto di ulteriori esposizioni, e saranno una delle colonne su cui il discorso critico e il tentativo di svelare i misteri della Woodman si baseranno.
Nel 1977 ha diciannove anni e fotografa con determinazione già da sei, da quando il padre le ha regalato la sua prima macchina fotografica. Il suo italiano è quasi perfetto, ha frequentato un anno nelle scuole elementari fiorentine oltre alle estati toscane, ed è a Roma come studente in trasferta dal RISD (Rhode Island School of Design).
In questo anno italiano avviene un evento fondamentale nella costruzione del suo percorso: l’acquisto di un piccolo mazzetto di quaderni scolastici che diventeranno i suoi diari.
Sono piccoli, sottili e brutti, non offrono nessuna estetica particolare visti dall’esterno e sono un oggetto dei più comuni; allo stesso tempo sono anche pezzi imprescindibili per entrare nel suo mondo. I diari offrono una finestra nell’anima di Woodman e un aiuto come chiave interpretativa del suo lavoro, oltre a essere una creazione con la propria dignità artistica a sé stante.
La geometria entra ora in campo non solo come elemento compositivo ma anche come tela d’espressione: pagine di figure e formule matematiche vengono arricchite da fotografie o mutilate dal bianchetto su cui Francesca annota i propri pensieri. Un equilibrio perfetto tra il bisogno d’esprimersi e quello di farlo all’interno di limiti regolari e precisi, rispettando il bisogno di un ordine personale.
È grande il desiderio di poterla leggere come un’artista impulsiva, la cui creatività cola su qualsiasi superficie disponibile; sgorga fuori, si libera dalla gabbia corporea, da quella prigione che non le permette di esprimersi esattamente come vorrebbe. I diari ci offrono questa possibilità. Sono una piccola risoluzione del mistero della sua aura irrequieta, con una narrazione fatta di didascalie e appunti che arricchiscono l’esperienza dell’osservatore e aprono mondi a ulteriori domande.
Chi era Francesca Woodman? Chi era davvero?
L’unico quaderno reso pubblico fuori dal contesto espositivo è quello intitolato Some Disordered Interior Geometries, pubblicato nel gennaio 1981, qualche giorno prima della sua morte.
Il titolo è esplicito e promette un viaggio nell’intimo disordinato dell’artista. Le geometrie interne convivono con la pulsione di pensieri a tratti banali, a tratti estremamente profondi, per formare un prodotto indirizzato all’esposizione ma che raccoglie in sé piccole perle caratteriali essenziali.
Non può quindi considerarsi solo e semplicemente un diario intimo, in quanto è impossibile separare l’idea della sua concezione esibizionista dal suo contenuto, ma non è nemmeno solo un prodotto commerciale. È qualcosa che resta in sospeso tra due mondi, tra luce e ombra, tra natura e architettura, come chi l’ha scritto.
Con i suoi appunti Francesca si svela un po’ per quel che è, la donna dentro l’artista, e accenna alle sue tribolazioni in modo arguto e divertente.
“I wish I could change my mind
as easily as I change socks
But then I don’t change socks so easily”
“Vorrei poter cambiare idea
così facilmente come cambio i miei calzini
solo che non cambio i calzini così spesso”
In poche righe si rivela una di noi, e più la conosciamo più la riconosciamo al di là della costruzione del mito postumo; vive di passioni e delusioni, sente la propria forza e inadeguatezza in egual misura.
Nonostante l’estetica della sua fotografia ci rimandi a un immaginario da epoca vittoriana, etereo e sognante, impregnato da immagini che richiamano lo sgretolamento di sé attraverso quello dei muri, delle carte da parati, o la natura protettrice che ti accoglie e veste, che ti lascia diventare parte del suo paesaggio, Woodman non è mai stata estranea a quello spettro di emozioni che ci rende tutti animali terreni. Non ha mai nemmeno tentato di farlo credere. La sua ricerca di quell’intimità propria della sfera sensuale è accennata nei suoi diari attraverso frasi che sottolineano il suo bisogno di essere desiderata, e non meramente tollerata. La rabbia che scaturisce dall’essere in una relazione in cui il sentimento di disuguaglianza le causa sofferenza è riversata in poche righe che hanno un impatto importante sul lettore, perché risuonano familiari a tutti.
La capacità comunicativa dei suoi appunti è forte quanto la loro semplicità. Nelle note marginali è impietosa verso se stessa quando si autodefinisce “vain, masochistic” in cerca di qualcuno che si assuma il rischio di starle accanto; è anche piena di orgoglio, quando si lamenta di essere trattata da parassita da quello che identifica come un compagno di vita, o di non ricevere da lui il dovuto riconoscimento per i suoi sforzi creativi.
“I am happy, except when he treats me like vermin or when he acts like my sexuality is a pain in the neck”.
“Sono felice, tranne quando mi tratta da parassita o quando agisce come se la mia sessualità fosse un peso”.
Questa lettura è un’esperienza che si espande su numerosi livelli tra parole scritte a penna, cancellate e sovrapposte alla fotografia o alle formule aritmetiche. È emblematica una delle pagine che riassumono questo concetto: ne è protagonista una fotografia centrale che ritrae una donna col viso coperto dal proprio braccio, la mano aperta e un anello di fumo che le evapora dalla bocca. La pagina che la ospita è un elenco di definizioni preliminari riguardanti la geometria. Le prime della lista recitano in italiano:
- La geometria è la scienza dell’estensione.
- L’estensione di un corpo è la porzione di spazio occupata da questo corpo.
Si potrebbe riassumere così il grande mistero di Francesca Woodman, senza pertanto svelarlo. Corpi che si estendono e lasciano dietro la traccia della loro presenza. Lo spazio occupato da un corpo che si allunga e si moltiplica usando specchi, pendendo dallo stipite di una porta o spiccando il volo con ali di carta.
Questo desiderio di espansione è lo stesso che traspare dalle corrispondenze e conversazioni con chi le era più vicino, e l’insoddisfazione nel non riuscire a farlo abbastanza in fretta nel mondo artistico professionale fu tra le preoccupazioni principali che la portarono a metter fine alla sua vita.
Non lasciò una nota prima di saltare, ma in una lettera alla sua migliore amica descrisse la sua vita come il fondo sedimentato di una tazzina di caffè.
Piuttosto che continuare a stagnare, Francesca ha preferito interrompersi e immortalare il proprio percorso nella giovinezza, lasciando dietro di sé quel che considerava essere già un lavoro maturo.
Pezzi dei suoi diari sono periodicamente esposti con le sue fotografie, e il loro fascino è tale che è facile scovarne in rete. Dalla grafia già faticosa da decifrare, fanno parte di quell’iconografia feticcia che prospera su siti come Tumblr o Pinterest; hanno un’armonia senza tempo che trasmette, tra i tanti, anche un semplice messaggio che li rende appetibili per una consumo visivo superficiale: tutto può trasformarsi in diario, tutto può essere un contenitore di creatività. L’arte prende il sopravvento e si appropria di ogni superficie senza discriminare.
Più difficile è mettere le mani su un prodotto editoriale all’altezza di questi lavori. Oggi è ancora possibile trovare un cofanetto edito nel 2011 in lingua inglese, Francesca Woodman’s Notebook, che riproduce alcuni estratti dei quaderni. Ma si tratta di un prodotto di poca qualità – poche pagine, stampa scadente, un libro che non rende giustizia alla meraviglia che è il lavoro originale, e che non può in alcun modo restituire l’esperienza di avere tra le mani un oggetto che si esprime sia visualmente che attraverso l’esperienza tattile. Offre tuttavia al lettore la possibilità di godere dell’equilibrio tra i testi e le fotografie, se si è disposti a chiudere un occhio sulla mediocrità dell’esecuzione del libriccino.
A quasi quarant’anni dalla sua morte, Francesca Woodman resta ancora un mistero da svelare completamente. Anche se tutti i suoi diari fossero resi pubblici e disponibili, resterebbe comunque quell’aura da crepuscolo che ci lascia tra sogno e realtà guardando le sue opere. Di concreto, di certo, resta una sua frase scritta a penna: “I don’t know if I can do another year of dishonesty”.