Claudia Petrucci ci ha inviato un racconto che ci piacque molto, anni fa, e da allora abbiamo cercato di coinvolgerla un po’ in quello che facciamo. A gennaio è uscito il suo esordio per La nave di Teseo, L’esercizio: ho approfittato di una presentazione qui a Milano e sono andato a sentirla, ma sono solo riuscito a intravederla perché la presentazione era bella piena. Ero con un amico che sussurrando si è lamentato del tono: «Messo così, questo è il romanzo del secolo, mi suona strano.» Gli ho risposto: «Del secolo magari no, ma lei è brava» e gli ho allungato il libro. Ha letto la prima pagina, me l’ha restituito: «Sì, è brava.»
Poi abbiamo pranzato assieme il giorno successivo, poi dovevo presentarle la compagine milanese della redazione ma da lontano abbiamo visto arrivare le nubi del disastro pandemico e ci siamo salutati con un: alla prossima volta.
La prossima volta è stata, in questi mesi, per email, e in un documento creato e sviluppato durante momenti diversi e giornate diverse, quando ho pensato che mi sarebbe piaciuto intervistarla, ma poi ho anche pensato che un’intervista è una cosa un po’ abusata, che se ti viene male risulta anche noiosa. Magari poteva esser la volta buona per fare qualcosa di diverso.
Ero lì ad arrovellarmi sul tono, lo stile, le parole da usare con una scrittrice pubblicata da una casa editrice come La nave di Teseo (motivo per il quale ho scelto “arrovellare” come verbo), soprattutto che maniera pratica per gestire questa cosa poco noiosa.
Ma qualcuno il ghiaccio lo deve rompere, e Claudia Petrucci lo rompe così:
cp
Ho pubblicato il mio primo libro nel 2020 ed è scoppiata una pandemia.
ms
Vabbè, che problema c’è? Io ho aperto partita IVA pochi giorni prima del blocco totale, i clienti con i quali avrei dovuto lavorare si sono – giustamente in quasi tutti i casi – volatilizzati per causa di forza maggiore. Siamo vicini in questo, siamo lontane e lontanissime per altre cose: tu sei del ‘90 e io dell’82, io sto a Milano e tu in Australia. Come si scrive un romanzo come L’esercizio, in Australia?
cp
Abbracciamoci (noi, e tutti gli altri).
Si scrive di sera, due o tre ore ogni giorno, per quattro mesi, con tua madre che ti chiama per chiederti: hai scritto le quattro pagine, oggi? Si scrive mentre si gestiscono impieghi diversi, mentre il visto di lavoro viene rifiutato per un pasticcio dell’agente di immigrazione e durante un tipo di apprendimento selvaggio della lingua inglese (“ti mettiamo davanti a un telefono con venti linee, parlanti australiani, irlandesi, filippini, indiani, cinesi, taiwanesi, macedoni, coreani, francesi che ti chiederanno informazioni molto complesse sulla chirurgia implantare: e adesso rispondi”). Un po’ di fatica, ma anche un gran divertimento.
ms
Aspetta: tua mamma ti chiamava per chiederti se avevi scritto? E perché proprio quattro pagine? Io per fortuna non ho una madre che mi chiama per sapere se ho mangiato, ma neanche se ho scritto o fatto quello che dovevo fare! Adesso la chiamo.
cp
Mia madre è un contabile (e molte altre cose spaventose). Quando le ho detto che ero pronta per scrivere il romanzo, l’ha trasformato subito in numeri. Abbiamo fatto due conti – li ha fatti lei, perché io sono disnumerica – e abbiamo capito che, per finire in tempo con il limite che mi ero data, avrei dovuto scrivere quattro pagine al giorno per cinque giorni alla settimana. Lei aveva paura che mi perdessi per via della situazione non facile, diciamo, così controllava spesso che stessi rispettando il programma. E mi minacciava, che donna fantastica.
ms
Cuore di mamma. Ma disnumerica è uguale a discalculica? Una mia ex collega è discalculica, era bellissimo sparare cifre a caso all’interno di discorsi seri e vederla schiumare. (Prima che mi arrivino le maledizioni: ovviamente lo facevo quando sapevo che potevo farlo e solo perché c’era confidenza, non lo farei in situazioni di stress. Excusatio non petita, lo so, però è vero.)
cp
In effetti facendo un rapido controllo su Google, disnumerico risulta non pervenuto – ma scusa, Matteo, quanto era più bello di discalculico? Comunque sì. Ebbi la straordinaria intuizione di iscrivermi a ragioneria, e scoprii di essere discalculica quando era già troppo tardi: fino al secondo anno ho barato, dal terzo al quinto ho ripetuto tutto il programma di matematica dalle tabelline alle funzioni circolari senza passare dal via. I numeri per me hanno un senso molto astratto, e sono in difficoltà con qualsiasi cifra superi la capacità delle mie dita (delle mani).
ms
Questo dettaglio è molto interessante, un po’ perché credo che sia una cosa che non è ancora nota come può essere, chessò, la dislessia: e invece immagino sia una croce di molte persone, quella d’incasinarsi coi numeri. E poi perché mi permette di tornare sul romanzo, e la scrittura, ma di lato: influisce? Ha influito? Come può influire? È vero che la scrittura non è matematica, anche se alcune volte può arrivarci, però che cosa affascinante, questa che mi hai detto.
cp
Lo è, è un handicap: quando ricominciavo a studiare le moltiplicazioni a diciassette, diciotto anni come se non ne avessi mai vista una prima, io stessa non riuscivo a capacitarmi di avere già dimenticato tutto. Mi è ancora incomprensibile. Inoltre credo sia una difficoltà che si ripresenta nell’apprendimento di materie non matematiche ma con qualche sorta di struttura algebrica alla base. Per capire se questo handicap influisca sulla mia scrittura dovremmo indagare la mia immaginazione: di che tipo di immaginazione si tratta, quanto è sviluppata?, e da lì procedere per supposizioni. Per esempio: quando immagini una mela, vedi una mela davanti a te o no? Riesci a visualizzare la mela come se potessi allungare una mano e toccarla? Aggiungiamo un altro elemento: quando lavoro alla forma di un testo, cerco di creare l’equivalente di un impianto meccanico, e in questi dispositivi ci deve essere qualcosa di matematico. Magari scrivere è la mia matematica.
ms
È una teoria interessantissima, un taglio davvero affascinante. Scusami se rimango, per il momento, qui, ma: quando invece sei lettrice – o spettatrice, anche: si fa sentire, questa discalculia? Non lo so, mi immagino un libro come Cloud Atlas, che non sono riuscito a finire e il cui film è pieno di intenzioni notevoli e poi cade miseramente, ma: una narrazione a specchio come quella, per dire? Magari non l’hai visto, ma prima di scoprirlo vado a farmi la doccia.
cp
Sbarbato? Pronto?
L’atlante delle nuvole non mi ha entusiasmato. Ho l’impressione che il calcolo, in Cloud Atlas, prenda il sopravvento sulla narrazione. Se ho sei anni e un carillon portagioie con una ballerina, la ragione che mi spinge ad aprire in continuazione il portagioie, fino a romperlo, non sono la manovella, le molle, le lamelle che ne compongono il meccanismo automatico. È chiaro che non ci sarebbe nessuna melodia e nessun balletto senza il meccanismo, ma non è a questo che si interessa la me seienne. Da lettore, è bello poter sbirciare nel calcolo di un libro – io stessa mi sono divertita molto con l’elemento metanarrativo ne L’esercizio – ma, personalmente, credo che un’operazione algebrica troppo imponente e visibile guasti il piacere della lettura. Poi c’è anche chi preferisce romanzi che sono pura matematica, senza impalcature.
Io davvero non ho idea di cosa ho appena detto, e credo di aver mancato l’obiettivo della tua domanda. È pur sempre lunedì mattina. Mi faccio un caffè.
ms
Vorrei chiarire, e lo faccio soprattutto per chi ci legge perché penso che noi lo sappiamo, che non c’è obiettivo a questa conversazione. L’idea è più vicina a una conversazione, ci sono un paio di punti che vorrei toccare ma se anche non arrivassero non importa, mi pare che fino a qui abbiamo già detto delle cose interessanti. Non lo so, non mi andava la classica recensione, né la classica intervista, volevo provare qualcosa di diverso – e non credo neanche sia originale, come idea, penso che sia già ben stata usata. L’importante è che non ti stia annoiando tu per prima (a chi ci legge penseremo poi!), e che non ti stia pentendo di aver accettato!
cp
No, io invece sono così felice. Negli ultimi mesi ho vissuto questa esperienza paranormale di fare interviste e leggere recensioni sul mio romanzo. Una cosa bellissima, chiariamo, ma anche spersonalizzante, per quanto mi riguarda: a volte guardo il libro, la sua copia fisica, e mi chiedo chi l’abbia scritto. La parte più divertente è smontare il testo a posteriori, ricostruire il processo di scrittura e scoprire di avere fatto, a volte anche non coscientemente, delle scelte che hanno funzionato. E che punti vorresti toccare, buon Matteo? Se non mi imbrigli qui tra due minuti ci troviamo a parlare delle strutture sociali dei Kachin.
ms
Le strutture sociali di chi?
cp
Popoli birmani.
ms
Ah, potrebbe essere sempre molto interessante, e sicuramente imparerei un sacco di cose! Però allora torniamo indietro di un migliaio di battute e vorrei capire come è il momento in cui apri uno dei tuoi libri del cuore e… cosa dici? «Maledizione, quanto vorrei averlo scritto io», come disse Guccini di Luci a San Siro? Strappi il libro, come si dice De André abbia spezzato il vinile dove stava Sestri Levante? Insomma, L’atlante delle nuvole meh, mi dici: e gli altri, che invece non sono meh?
E, a monte: che cazzo di gran canzone è, Sestri Levante?
cp
È bellissimo. Perché da quell’ammirazione, entusiasmo e desiderio parto per caricare il salto. L’obiettivo non è raggiungere uno stile specifico o imitare una forma: dei libri che amo invidio l’armonia. Un po’ come De André con Sestri Levante? Meravigliosa assai, Sestri Levante. Almeno questa la conosco, visto, visto?
ms
A me una volta quel bel ragazzo di Alessandro Romeo mi diede da leggere una delle raccolte di racconti di Cognetti, non ricordo se il primo libro o il secondo. Credo che nelle sue intenzioni ci fosse di pungolarmi e spingermi a tornare a scrivere, cosa che ogni tanto qualcuno cerca ancora di fare. Devo dire che il libro mi risultò talmente insipido che fu abbastanza inutilizzabile, come pungolo. Però sì, ci sono quei momenti in cui vedi qualcosa, senti qualcosa, leggi qualcosa, e non dici solo: ok, lo posso fare anche io, ma proprio: lo posso fare mio.
cp
Detto questo, credi che poi funzioni? Che sia possibile il “farlo mio”? O che nel tentativo di fare proprio qualcosa si crea invece sempre in modo differente e originale?
ms
Be’ sai che credo che sia l’unico modo? Sennò si diventa derivativi, o si cade nell’omaggio, o comunque non va troppo bene. Poi certo, ognuno si prefigge scopi e obiettivi, anche di stile, anche di onestà. L’altro giorno ho risposto a un commento su Facebook su una puntata di Ricciotto, lo faccio raramente ma ci tenevo a far capire a una persona che non ci conosce ancora bene che quello che può sembrare sciatteria è la nostra maniera di essere il più onesti possibili. Ché uno magari è abituato a sentire le robe tutte belle pettinate, e ci sta, e non capisce subito che il nostro tagliare il meno possibile tutti i momenti morti e gli errori è per arrivare all’esposizione più sincera possibile, più onesta. Ci son mille generi di onestà e certamente si può raggiungere con un podcast molto post-prodotto, eh. Però sì, credo che se non lo si fa nostra, qualsiasi cosa sia quella da cui partiamo, poi non è che si vada molto avanti. Credo sia molto bello.
cp
No, certo che non si va molto avanti, anche se credo ci voglia comunque tantissimo talento per essere un falsario – un vero falsario, non un imitatore. Ci pensavo sabato, ma in generale ci penso sempre quando mi chiedono quali sono i miei riferimenti letterari: più che un essere umano, mi sento un laboratorio di chimica. I libri che leggo, gli autori che mi piacciono sono i reagenti dell’esperimento. E infatti devo andarci cauta, quando mi dedico alla lettura, devo tenere sempre a mente la possibile reazione.
È venerdì. Stamattina mi sono alzata con la voglia di scrivere un romanzo di fantascienza.
P.S. A me piace parecchio, quel tipo di onestà.
ms
Un romanzo di fantascienza? Così di botto, o è un genere che ami e frequenti? O cosa? Racconta!
cp
È un genere che amo e che ho sempre frequentato. Ho questo sogno di scrivere un grande romanzo di fantascienza – ché forse, e purtroppo, in Italia questa non è una cosa furba da dire ad alta voce.
ms
Temo di no. Non è una cosa sulla quale sono grandemente ferrato, devo dire, ma mi pare che te la passino solo e soltanto se è una grande metafora di qualcos’altro. E non è che la fantascienza non sia una grande metafora – anzi! – ma se non ci sono quattordici sottotesti, otto metaforoni e un paio di rimandi sociali non ne esci. Effettivamente adesso mi veniva da chiederti come gli australiani vedano la fantascienza, ma mi fermo prima e ti chiedo invece com’è la scena culturale australiana. Sono autoreferenziali come in Italia? Sono un po’ più professionali?
cp
Sarò onesta. Da quando mi sono trasferita in Australia ho svolto molti lavori e nessuno di questi a contatto con la scena culturale. Ho iniziato lavorando full-time come cameriera (ispirato a quel periodo è il mio primo racconto pubblicato, uscito su Cadillac nel dicembre 2017), poi, per un po’, ho sovrapposto alle ore da cameriera un lavoro come commessa d’abbigliamento, e un altro come responsabile marketing per un’azienda di import-export (per quest’azienda mi sono anche occupata di fare l’assaggiatrice di olio extra vergine, in attesa del personale qualificato). Conciliare quei ritmi lavorativi a un’attività di scoperta del panorama letterario australiano, di frequentazione di eventi, mi era fisicamente e mentalmente impossibile. Emigrare in Australia è una competizione di resistenza. Da un anno e mezzo lavoro in ufficio e basta, ma sto ancora recuperando sullo stress dei due precedenti. A dicembre 2019 sono diventata permanent resident, e proprio quando ero finalmente nella condizione di programmare un master, inserirmi in un altro contesto, è arrivata la pandemia.
ms
No, ma ci credo. E anzi, hai fatto benissimo. E quindi che hai in mente per questo romanzo di fantascienza? O non lo puoi dire? Ci saranno quattordici sottotesti, otto metaforoni e un paio di rimandi sociali?
cp
Di nuovo lunedì: nel frattempo mi sono convinta di dover scrivere, insieme a un romanzo di fantascienza, una bella saga familiare.
ms
Claudia non ti si può star dietro, però! Ma romanzo di fantascienza che è anche saga familiare? Tipo Guerre stellari che è la storia di una famiglia?
Adesso comunque li voglio leggere tutti e due. E soprattutto: aver scritto e pubblicato – soprattutto: pubblicato – L’esercizio pensi ti possa aiutare a scrivere, specificatamente, un romanzo di fantascienza e una saga familiare?
cp
Mi scusi. Certo, penso di sì. Perché, di solito come funziona?
ms
Eh, non lo so, credo dipenda da ciascun artista. Però di mio penso sempre che l’atto di condividere la propria opera (che sia gratuita o dietro pagamento, ma comunque: ecco, questo l’ho fatto io, prendi, vedi se ti piace) vada per forza di cose a modellare come ci si pone nei confronti di, be’, tutto. Da chi fruisce a chi può o deve intervenire durante la produzione dell’opera, anche ai colleghi. Non lo so.
cp
Forse hai ragione, ma per ora io non sento nulla, nessuna differenza rispetto a quello che ho provato mentre scrivevo L’esercizio. Eppure sono successe delle cose, cose importanti, e ne stanno succedendo altre in questi giorni strani. Credo che vivere questa esperienza da lontano, e viverla virtualmente – una condizione che per me è rimasta identica rispetto al mondo pre-pandemia – influisca molto su questa percezione. Dopotutto la mia vita qui è la stessa, non ho iniziato a frequentare persone diverse, ambienti differenti: sono riuscita a guardarmi muovermi come autore nel mondo fisico solo per due settimane, a febbraio. Qualcosa è cambiato, per esempio mi inviano dei libri da leggere, mi chiedono degli articoli, ma questa era una cosa che facevo anche prima, da sola. Non riesco a capire chi sia Claudia Petrucci autore, dall’esterno, non riesco a mettermi a fuoco. Pensi potrebbe essere un bene? Magari è per questo che penso ancora in modo così brado al prossimo libro.
ms
No, sai, credo che valga sempre la risposta magica: dipende. Ognuno reagisce come può e come crede, quindi: anche sticazzi. L’unico problema dell’eccessiva consapevolezza, io credo, sta nel rischio di cadere un po’ nel personaggio-scrittore (scrittrice, anzi). Ne ho conosciuti diversi e poi l’impulso di pulirmi col tritolo è stato difficile da resistere. Diverso è se parliamo di consapevolezza dei propri mezzi, ma anche lì, dovrebbe essere sempre un discorso in evoluzione.
cp
Concordo, lei è molto saggio. Credo di essere consapevole dei miei mezzi ora, e di non essere mai contenta! E quindi facciamola sta saga familiare fantascientifica, va!
ms
Non ho ancora capito perché mi dai del lei a volte, però…
cp
Ogni tanto mi prende così. Ho avuto anche il periodo dello storpiamento dei cognomi. Preferisci che ti chiami **********?
ms
No santamadonna, no! Va benissimo il lei!
cp
Il secondo romanzo è quello più difficile. Ho appena ricevuto un’offerta di edizione tascabile in un Paese europeo – adesso adesso. Sono miope. Anche asmatica. Potrebbe farmi una domanda prima che io mi vada a impelagare in altri deliri da associazione libera? Il plurale di delirio non esiste. O comunque ha una sola i (?)
ms
Ok allora partiamo e siamo produttivi: che idee hai su questo romanzo famigliare fantascientifico?
cp
Ma quando mai il giorno in cui mi sono alzata e ho detto di voler scrivere un romanzo fantascientifico. Vorrei scrivere un romanzo sulla realtà aumentata. E uno sulla storia di una famiglia che costruisce un impero dell’intrattenimento. Poi vorrei scriverne uno storico, il cui protagonista dovrebbe essere un uomo a me molto caro, che sognava di fare l’attore. Dovrei anche scrivere un romanzo che tratti il tema della competizione generazionale. Nel frattempo, dovrei raccogliere il materiale necessario per lo sviluppo di qualcosa che sia l’incontro tra Borges, Pagemaster, Inception, Memento e Solaris di Lem; no, ma pure La svastica sul sole di Dick.
ms
Hai veramente detto Pagemaster?
cp
Sì, perché? Dai, è stato un fiascone, però c’erano degli spunti interessanti. Fammi controllare quanti anni avevo quando è uscito… quattro anni, avevo quattro anni. Devo averlo chiaramente visto dopo.
ms
Christopher Lloyd, Patrick Stewart, Leonard Nimoy e pure il ragazzetto rompiballe. Dovrei, effettivamente, rivederlo, chissà se c’è in streaming su qualche piattaforma. Ok ma: come fai, adesso che hai detto tutte queste cose che vorresti scrivere? Hai un grande documento intitolato “idee.txt” dove metti tutte le cose che ti vengono in mente, e piano piano le nutri finché non si espandono troppo e meritano il proprio file?
cp
Sto per dire una cosa orribile: non le appunto da nessuna parte, le alimento mentalmente finché una di queste supera la capacità del mio cervello e sono costretta a scrivere. A quel punto è chiaro che si tratta del romanzo che devo sviluppare – è successa la stessa cosa per L’esercizio.
ms
Ah ma sai che lo capisco benissimo? Anzi, mi sembra una cosa molto sana, molto organica. Rischi di perdere magari qualche storia per strada, però come si dice: se l’ho persa vuol dire che non era importante, no?
cp
Esattamente, non è altro che uno strumento di selezione naturale. Per quanto mi riguarda, funziona molto bene. Ah, Pagemaster è su Netflix.
ms
(Mi toccherà guardarlo, allora.) Ma quest’assenza di archiviazione delle idee vale anche per gli articoli? O è solo per la narrativa? Lo chiedo perché quelle poche volte che mi dico “ah, ci starebbe bene un pezzo su [inserire a caso]”, se non mi appunto da qualche parte quell’idea me la perdo.
cp
Anche per gli articoli, sì, ma con l’articolo è più semplice ricostruire le tracce dell’archiviazione mnemonica, perché quando trovo in giro delle fonti o degli spunti interessanti li salvo – in lunghissime liste senza criterio che vado a spulciare di tanto in tanto per ricordarmi di cosa volevo parlare. Tu invece? Come te la cavi con l’organizzazione dei materiali? Mi sembri una brava persona ben organizzata.
ms
Sì lo so, è un inganno in cui cadete tutti. Sono organizzato per alcune cose, disorganizzatissimo per altre. Lasciamo perdere, che non è il caso. Tendenzialmente però pure io ho questo metodo di selezione naturale, ti capisco molto bene. Infatti non c’era esattamente un senso, a questo pezzo, ma mi piace.
Ok Claudia, l’ultima curva prima dell’arrivo: cosa farai, quando avremo finito questo polipo a quattro mani che nuota in ogni direzione? (Mi rendo conto che questa domanda avrebbe più senso se si potesse uscire, correre, andare a bere una birra al bar preferito, ma ugualmente la faccio.)
cp
Scriverò un articolo su un titolo di Joyce Carol Oates in arrivo a metà maggio. Finirò di scrivere, in drammatico ritardo, un pezzo per un amico. E dovrò pensare al prossimo progetto che voglio mettere su, qualunque esso sia. Tu, buon Matteo?
ms
Io ho perso delle giornate per creare una magia automatica perché tutti i pezzi che ci arrivano in lettura vengano automaticamente caricati su Basecamp e non sia necessario farlo a mano. A un ritmo di una quarantina di pezzi a settimana iniziava a essere pesante farlo a manina. Per fortuna la magia funziona: e ha funzionato, secondo me anche la magia di questo pezzo!
cp
Fingerò di aver capito di cosa stai parlando. Molto magico, questo pezzo. Mi mancherà. Rifacciamolo presto.