Parlare di musica: Assolutamente musica di Murakami Haruki e Ozawa Seiji

A organizzare uno dei più importanti concerti jazz della storia fu Vera Brandes, futura produttrice discografica. Nel 1975 aveva solo 17 anni e, nonostante la giovane età, era riuscita a convincere Keith Jarrett a suonare a Colonia. Quando lui arrivò venendo da Zurigo pioveva. Era stanchissimo. Era in tournée e non dormiva bene da diversi giorni. Aveva un forte dolore alla schiena. Giunto al teatro dell’opera non trovò il piano che aveva richiesto, un Bösendorfer 290 Imperial. Trovò invece un modello più piccolo con un pedale che non funzionava bene. Come se non bastasse non era neanche perfettamente accordato ed era troppo tardi richiamare l’accordatore. In sala si stavano accomodando le 1300 persone accorse ad ascoltarlo. Jarrett si rifiutò di suonare. Quando era già in auto per andarsene, Brandes lo raggiunse scongiurandolo di suonare. Chi conosce Jarrett sa che “perfezione” non descrive abbastanza i suoi livelli di pignoleria. Aveva mal di schiena, pioveva, non aveva il piano che voleva.
Non si sa ancora perché ma si lasciò convincere. Salì sul palco e si mise di fronte a quel piano che non voleva. Quel concerto era partito malissimo. Nonostante tutto, si esibì in una performance che è ancora considerata uno dei vertici del jazz, forse insuperata.

Parlo di un concerto jazz — anche se uno molto particolare — per raccontare un libro che, per lo più, si concentra sulla musica classica. È Assolutamente musica e raccoglie le conversazioni fra Murakami Haruki e il direttore d’orchestra Ozawa Seiji. Il jazz c’entra incidentalmente: Murakami ne è un fine conoscitore, oltre ad avere gestito un locale dove lo si suonava, quando ancora fumava, non correva e non scriveva nemmeno. Del resto la musica è sempre stata una protagonista nemmeno silente dei suoi libri: di certo sempre evocata e allusa, citata e centrale in molte sue pagine (il suo romanzo Norwegian Wood prende il nome da una canzone dei Beatles e non c’è suo libro – a memoria – che non citi, usi, nomini e faccia riferimento a qualche musica).

Di quel concerto di Keith Jarrett non c’è traccia in Assolutamente musica, anche se è scontato che Murakami lo conosca perfettamente. Lo cito però per due motivi, che c’entrano con il libro: perché parlare di musica è come danzare di architettura – come disse non son più certo chi, perché la frase è attribuita a Zappa e ad altri, fino ad arrivare ad Aristotele, ne sono certo – e perché il libro in questione parla anche e soprattutto di interpretazione. Nel caso del concerto di Colonia non si può propriamente parlare di interpretazione quanto piuttosto di improvvisazione, però l’atteggiamento e la sensibilità musicale avvicinano Jarrett e questi due giapponesi che molti decenni dopo si trovano a casa dello scrittore a discutere di musica mentre la moglie porta tè e dolci da mangiare tra una pausa e l’altra.

Perché il concerto di Colonia ha avuto così tanto successo? In fondo si tratta di un concerto jazz, un genere di nicchia. Credo che uno dei suoi pregi — al di là del suo indiscutibile valore musicale — sia l’equilibrio perfetto che Jarrett ha saputo creare tra accessibilità della musica e la sua eleganza. Il discorso vale per qualsiasi espressione artistica ma nella musica è più evidente perché si tratta di un linguaggio universale: qual è il confine fra l’altezza e astrazione dell’oggetto artistico e la sua comprensibilità? Quel confine è il punto di equilibrio fra due forze opposte: il suo essere artistico (e quindi materializzazione di un pensiero astratto) e il suo essere riconoscibile e comprensibile. Quando l’astrazione è eccessiva la comunicazione si interrompe e pochi possono capirne il messaggio. Quando la riconoscibilità è eccessiva l’opera d’arte scolora in qualcosa di troppo reale e per niente astratto. Le opere d’arte sono di questo mondo ma anche di un mondo parallelo, sono finestre su altri mondi, sono il futuro e il passato visibili nell’attimo presente.

Jarrett ha composto, suonato e improvvisato tanto a lungo nella sua carriera fino ad arrivare a cose incomprensibili o di difficile lettura. Diciamo che non concedono molto all’orecchio, ecco. A Colonia fu invece capace di suonare in maniera profondissima, partecipata e intelligente pur non essendo oscuro, anzi. Più di qualche passaggio di quel concerto lo si può anche fischiettare, producendo un’immagine che farebbe rabbrividire Jarrett, ne sono certo.

Assolutamente musica ha lo stesso grado di comprensibilità del Concerto di Colonia. Lo si può leggere a diversi livelli, apprezzandolo ogni volta: chi conosce le opere di cui i due discutono può capire le sfumature interpretative in cui si infila Ozawa Seiji, chi non sa niente di musica classica può deliziarsi con molti aneddoti sulla vita di altri grandi direttori d’orchestra e musicisti, chi è interessato al solo aspetto dell’interpretazione di un’opera può intuire come la affronta un grandissimo direttore. Murakami è la porta che fa entrare in questo mondo, è il decriptatore di questo complesso codice. Non sa suonare nessuno strumento né quasi leggere la musica eppure ne ha una conoscenza enciclopedica e spesso Ozawa resta sbalordito dalla precisione delle sue osservazioni. “Precisione” perché al riguardo Murakami è un dilettante professionale, o un professionista dilettante: non ha che conoscenze tecniche e musicali parziali eppure ha sviluppato un modo molto personale di indagare la questione musicale, affinando la propria sensibilità e ritrovandosi capace di intuizioni notevolissime.

Assolutamente musica non è però un libro didascalico, nel senso che non semplifica mai il discorso rischiando l’imprecisione. Anche chi ascolta molta musica classica — come il sottoscritto — resta stupito da quanti livelli di lettura e sottigliezze Murakami colga. Ci sono intere pagine dedicate a un singolo passaggio di un concerto di Brahms. È un punto in cui due corni si devono sovrapporre per tenere una nota per una lunghezza insostenibile da un solo corno. Ozawa spiega nel dettaglio a Murakami come lo stesso Brahms abbia annotato questo passaggio, sottolineando la sovrapposizione dei due corni in modo da produrre la stessa nota, in una sorta di staffetta sinfonica. Murakami trova poi un video di quel concerto diretto dallo stesso Ozawa e in un successivo incontro gli fa notare che la sovrapposizione non c’è stata, che il primo corno ha interrotto impercettibilmente ma ha eseguito tutto in solitaria. Ozawa è contrariato e sbotta “Ha barato!”, salvo poi dire che si tratta di un ottimo musicista, magari di carattere un po’ spigoloso. Di conversazioni del genere ce ne sono svariate, ma non si ha mai l’impressione di assistere al dialogo fra due pazzi che parlano di inezie.

Il viaggio che si intraprende con questi due notevolissimi giapponesi è invece un’immersione in profondità inesplorate, alla ricerca della perfezione e della qualità esecutiva sopraffina.

L’altro grande tema attorno a cui ruota tutto il libro è quello dell’interpretazione. A partire dal concerto per pianoforte di Brahms eseguito da Glenn Gould e diretto da Leonard Bernstein fino alle più famose interpretazioni di Ozawa, la figura dell’interprete è centrale.

Il profano potrebbe pensare che un solista o un direttore d’orchestra siano degli esecutori, dei professionisti che eseguono una partitura come dei killer eliminerebbero un obiettivo. Il ruolo artistico dell’interprete è invece fondamentale perché, per quanto il compositore possa essere stato preciso nell’annotare come debba essere eseguita la sua musica, è alla sensibilità del solista e del direttore d’orchestra decidere le sfumature e l’impostazione esecutiva di un’opera musicale.

La discussione genera non a caso dal Concerto n. 1 per piano di Brahms eseguito da Gould e Bernstein e restato famoso perché lo introdusse lo stesso direttore con un insolito discorso con cui spiegava perché, nonostante non fosse d’accordo col tempo che aveva scelto Gould, avesse comunque deciso di dirigere.

Per capire come una stessa partitura possa essere interpretata in maniere diverse basti pensare che lo stesso Gould registrò nel 1955 e nel 1981 le Variazioni Goldberg di Bach impiegando a eseguirle 37 minuti nel primo caso e 51 nel secondo. In 26 anni Gould aveva deciso di rallentarle di circa il 30%. Bach del resto non dava indicazioni precise sulla loro durata ma solamente sul sentimento che avrebbe dovuto accompagnare ogni aria. In un’intervista Gould spiegò poi che la necessità di eseguirle più lentamente fu l’esito di una sua ricerca personale.

Alle orecchie dei più, e considerato che l’educazione alla musica classica non è molto diffusa, diverse esecuzioni della stessa sinfonia di Beethoven potrebbero sembrare identiche e, sulla carta lo sono, perché la musica eseguita è la stessa. In tutte le innumerevoli sfumature e nei cromatismi sonori si inserisce però il valore di un’interpretazione. Come leggere le indicazioni di tempo date dal compositore? Eseguire adagio, ma quanto adagio? Perché indugiare su quel passaggio? Perché enfatizzarne un altro? Ozawa è molto puntuale nello spiegare il suo metodo che si basa sullo studio solitario delle partiture per poi costruire l’esecuzione secondo la propria sensibilità. Quello che è più difficile da spiegare — cioè perché decida quello che decide — Ozawa lo lascia intendere o lo tace, forse perché appartiene alla sua sensibilità artistica e si esprime solo attraverso la musica. Come dice lo stesso Murakami nell’introduzione, Ozawa è un uomo di poche parole ma scelte con estrema cura. Quando si valuta quello che ha detto si capisce però che per lui le parole sono come note: ognuna ha un senso e un significato, silenzi compresi.

Ciò che è evidente è che un direttore d’orchestra o un solista sono indispensabili: la musica scritta ha bisogno di chi la esegue e senza uno strumento resterebbe comprensibile solo a chi sa leggere la musica. Per quanto le indicazioni dei compositori possano essere state puntuali, tutto ciò che è lasciato inespresso diventa un vaso di espansione espressiva dell’interprete che completa e anima la scrittura musicale.

Tornando all’inizio: cosa c’entrano Jarrett e Ozawa (e anche Murakami)? Di certo sono accomunati dalla musica, eseguita o solo ascoltata. Visto però che Assolutamente musica è un libro fatto di parole, è giusto dare la priorità all’unico scrittore, cioè Murakami. La musica è una delle forme espressive più immediate e ancestrali. Per certi versi precede addirittura la parola. Come ogni linguaggio deve però essere conosciuto, parlato, scritto e soprattutto ascoltato. Ha bisogno di un esecutore e di un ascoltatore. Chi ascolta musica funge, mi piace pensare, da cassa di risonanza della musica stessa che viene emessa dagli strumenti ma deve riverberare nelle orecchie e nelle menti di chi ascolta. L’ascoltatore completa il senso della musica, diventando uno strumento che vibra emotivamente quando è attraversato dalle onde sonore.

Assolutamente musica può appassionare qualche profano alla classica? Non lo so ma di certo certi passaggi aneddotici possono incuriosire e affascinare perché raccontano storie, e, attraverso queste, parlano anche di musica. Vi è di certo nelle sue pagine una componente molto umana che non può che affascinare e scaturisce dalla tensione (positiva) fra questi due amici e fra i loro dialoghi. Come un duo da camera, Murakami e Ozawa si parlano e producono una musica fatta di parole, immagini, domande e storie. La memoria di Ozawa è una storiografia della creazione di un’esecuzione, è la descrizione di un processo artistico e mentale. Il loro linguaggio è semplice e accessibile — come il concerto di Colonia di Jarrett — e il lettore è seduto silenzioso in una terza poltrona con loro in quella stanza di casa Murakami.

Come quella notte a Colonia in cui, mentre fuori infuriava la tempesta, un pianista jazz creò attorno alle persone che erano venute ad ascoltarlo un volume sonoro che le avvolse, rendendo visibile la musica. La musica è un linguaggio antichissimo, forse abbiamo solo dimenticato come ascoltarla: tacendo e aprendo la mente come un vaso pronto a ricevere. Murakami e Ozawa ce lo ricordano.