Il 19 luglio di un anno fa, in un giorno caldo d’estate, a Roma si apre una voragine. Incolmabile.
C’è una poesia di Jorge Luis Borges che a un certo punto dice: “ho eseguito un gesto irreparabile, ho stabilito un legame”; chiunque, nel leggere questo verso, può sentirsi investito dal ricordo di un incontro amoroso, struggente, epocale. O altro, ancora.
Il mio gesto irreparabile è avvenuto molto tempo fa con la grammatica e la scrittura di Mattia Torre: è questo che avrei sempre voluto raccontare, ma, almeno fino a oggi, non ci sono mai riuscita.
Perché quando penso a Mattia Torre, e sento le smisurate potenzialità della mia lingua madre orfane, penso che abbia bisogno di tutto tranne che di semplificazioni e penso che le ovvietà lo possano ferire e che una frase telegrafica e abusata come “è stato un genio” lo possa travolgere senza scampo. Ho appena preso in prestito, riadattandolo, uno stralcio di uno dei suoi monologhi semplicemente perfetti, In mezzo al mare, e sono ancora fuori fuoco, troppo lontana dal riuscire a raccontare, almeno dal mio punto di vista, Mattia Torre che un genio lo è (stato) per davvero. Non basta però, perché concludere che è (stato) un genio significa solo dire qualcosa di fin troppo evidente, persino tautologico. Tanto vale mettere le mani avanti e rinunciare: non sono capace.
E invece rimango e provo a rilanciare.
Ma cosa vuol dire, esattamente, raccontare Mattia Torre, e, soprattutto, è possibile raccontare chi ci ha spiegato, in ragione di una grazia e di un talento innati, che le parole, l’una accanto all’altra, si legano in formule inedite capaci di produrre linguaggi nuovi? E che è proprio questo, disvelare e rendere accessibile a chiunque un archivio lessicale e dunque emozionale fino a quel momento sconosciuto, un gesto d’amore rivoluzionario?
Quando uso il verbo spiegare ho in mente un’immagine: sbattere le lenzuola nell’aria fino a renderle lisce al tatto.
Torre spiegava, con la solidità di una scrittura raffinata ma mai leziosa, le pieghe dentro cui spesso inciampiamo e ci restituiva i frammenti sgangherati, insidiosi, irragionevoli e talvolta brutali della realtà fenomenica e noumenica come qualcosa di così intelligibile da sembrarci, in qualche modo, tollerabili o, al contrario, un ostacolo da contrastare ad armi pari.
Eppure, sarebbe parziale e restrittivo indugiare sul fatto che Torre possedeva il dono di sviscerare l’individuo, quale microcosmo multiforme, spesso incongruente, meschino, pavido, balordo, tracotante ma, altresì, capace di resistenza, slanci e reattività, tracciando linee e angolazioni di osservazione peculiari e personalissime.
Perché è vero: lo ha fatto. La sua produzione drammaturgica, letteraria, cinematografica e televisiva è uno sguardo sapiente, penetrante, arguto, frontale eppure mai recriminatorio o giudicante, dentro gli anfratti esistenziali e relazionali e le dinamiche spesso scellerate del sistema-paese. Molti autorevoli contributi si sono soffermati lungamente sulle tematiche centrali della produzione di Mattia Torre (fra tutti: la precarietà esistenziale e collettiva, la genitorialità, la famiglia, le tare politiche e culturali quali condizioni e condizionamenti da cui provare ad affrancarsi) e perciò io non saprei aggiungere altro se non passaggi tanto compilativi quanto inutili.
Però, intendiamoci, il punto nodale non è questo.
Tutti (o quasi tutti) nell’osservare i meccanismi della realtà hanno qualcosa da dire e possono farlo. Non è infrequente leggere o ascoltare voci interessanti e valide che, tuttavia, vengono dismesse in pochissimo tempo: la maggior parte di queste finisce in una discarica immaginaria e non (solo) per una questione di inconsistenza contenutistica.
Siccome non solo scrive ma gli piace anche passare dall’altra parte e leggere quello che scrivono gli altri, Lucas a volte si stupisce di quanto gli riesca difficile capire certe cose. Non è che siano astruse ma di colpo c’è un vetro sporco fra lui e quel che sta leggendo […]. Non si tratta di scrivere per gli altri, ma per sé, però uno deve essere anche gli altri.
(Julio Cortazar, Un certo Lucas).
Provo a ipotizzare, allora, che il discrimine sia racchiuso in questa frase: Mattia Torre non aveva solo cose da dire, ma le sapeva trasmettere in un modo meravigliosamente pregiato, incantevole, intenso e tuttavia chiaro, centrato, afferrabile.
È, infatti, proprio la coesistenza di tutte queste prerogative ad accadere di rado e solo quando la scrittura nasce da seme e non da innesto: andare dritti al sodo attraverso un linguaggio prodigioso e incisivo, rifuggendo qualsiasi orpello e artificio retorico.
Mattia Torre è sopra ogni cosa uno scrittore ed è la sua connaturata e irripetibile sensibilità di scrittura a essere stata il punto di rottura rispetto a tutto ciò che c’era prima di lui: un lessico e uno stilema comunicativo ineguagliabili, capaci di foggiare espressioni forbite, eleganti e suadenti, ma al tempo stesso tonde, nitide e immediate.
L’impatto che questa sintesi ha avuto (e continuerà ad avere) sulla percezione e sulle risorse cognitive, emozionali e intellettive delle persone è un processo fisico e irreversibile di osmosi: naturale eppure destabilizzante rispetto a un circuito di conoscenza ritenuto chiuso e risolutivo. Come quando Copernico ha detto che non era il sole a girare attorno alla Terra, o come quando impariamo a pronunciare le prime parole e il contatto con quelle parole ci appare la scoperta inattesa di un altro, migliore, mondo possibile.
Si può, infatti, indagare la famiglia quale coacervo nucleare angusto e claustrofobico nonché misura, più o meno inconsapevole, di fatiche relazionali e disfunzioni comportamentali, e credo che la tradizione teatrale, letteraria e cinematografica abbia conosciuto esempi notevoli sul tema. Ma se questa operazione magistrale di indagine è assistita dalla creazione, ex novo, di un linguaggio che incastra, in modo perfetto, suggestioni dialettali di una plausibile geografia linguistica e assiologica a soluzioni lessicali e di attracco mai ordinarie e predicibili, e tuttavia decifrabili, allora si è di fronte a un capolavoro quale è 456.
Vale lo stesso per La linea verticale: Torre è riuscito a trasmettere la densità materiale e umana della malattia quando, all’improvviso, si presenta come un altro pezzo di te che puoi e devi imparare a conoscere, attraverso una punteggiatura e un registro di una levità e finezza sottili ed essenziali, senza mai scivolare in tentazioni didascaliche e pedagogiche.
In questo senso, La linea verticale è la summa dell’eredità torriana: una fusione eccezionale tra massa personale delicatissima e respiro universale ed è proprio nell’autorevolezza della scrittura che risiede il potere di questa eccezionale saldatura.
L’aspetto più sconquassante e prezioso in Mattia Torre è la titolarità, per nascita (e non per esercizio), di un frasario corporale, dove lo sciogliersi delle parole diventa materia viva, tangibile, evoca immagini vivide e riconoscibili, in una coincidenza impressionante tra significato e significante. Il movimento e l’intera architettura narrativa dei testi, combinando toni e temperature differenti, si impongono come un approdo di sviluppo drammaturgico sconosciuto prima di lui.
Se si procedesse all’analisi logica di un testo di Torre, si entrerebbe in un territorio di sintassi mai esplorato. Lo stile di Torre è un fluire rapsodico tra periodi brevi, assertivi e paratattici e altri, al contrario, più graduali, analitici e articolati; un intercalare colloquiale e irriflesso si incastona come pietra abbacinante all’interno della frase, addensandosi in modo sbalorditivo alla levatura altissima dei termini che lo precedono e succedono; l’iterazione delle parole non è mai ridondante o insistente, ma un invito flessuoso alla memorizzazione degli enunciati; i segni di interpunzione non sono accessori, ma, assieme alla scelta delle parole e alla composizione delle proposizioni, costituiscono elementi al servizio di un linguaggio musicale perché dettano pause, ritmo, andatura. E altro ancora.
Provo a fare un esempio di quello che sto dicendo:
Io convivevo con questa, diciamo, personalità bucata, cioè avevo proprio un buco nella personalità come se m’avessero sparato e attraverso questo buco filtrava un po’ di tutto…angosce, ansie, spifferi. Qualche volta vere e proprie malattie. In quel periodo, per dire: mi ero preso una malattia che non è molto comune: la brucellosi. Ero andato dal medico e il medico aveva detto «Alfredo, è brucellosi». E io ero rimasto un po’ così. Gli avevo detto «Ah». Cioè non mi ero messo a chiedergli «cos’è», «che devo fare», «ma come», «che brutto nome». Mi era venuto da dirgli semplicemente «Ah». E me l’ero tenuta, la brucellosi. Cioè perché non suona bene la parola brucellosi, ma sapere cos’è secondo me è peggio. Che proprio il medico s’era messo a dire «Perché vede, Alfredo, la brucellosi risale» e io gli avevo detto: «Non lo voglio sapere». […] Solo mia sorella aveva avuto il coroggio di dirmi: «Certo, però, pure tu!» Come se fosse stata colpa mia se avevo la brucellosi. Cioè l’aveva detto proprio un po’ indignata, come se uno la brucellosi se la prende un giorno che non ha niente da fare, così, per noia. «Vieni al lago Alfredo?» «No grazie, sto a casa, mi prendo la brucellosi.»
(In mezzo al mare: Sette atti comici. Migliore)
In questo senso, dunque, leggere o assistere a un’opera di Torre significa, in qualche modo, essere percorsi da un linguaggio nuovo, come andare a lezione di inglese, di spagnolo o di francese, e nel lasciare che questo accada il lettore o lo spettatore non sono mai colpiti da un senso di subalternità, di scollamento, o di incomunicabilità, ma solo di attraversamento e, infine, contenimento: anche in questo si posano la grandezza e l’unicità di Torre.
Mattia Torre era depositario di un linguaggio accurato, eufonico, elevatissimo, mai scontato o prevedibile nel suo andamento, ma comprensibile e compenetrante tanto da essere assorbito e integrato da chiunque abbia avuto il privilegio di incontrarlo, leggerlo, seguirlo.
Per sempre, lo chiameremo talento puro.
Herta Müller ne Il re s’inchina e uccide scrive: “Il linguaggio non è stato e non è mai in alcuna epoca una riserva apolitica, perché non si lascia separare da ciò che gli uomini fanno con gli altri uomini”.
Penso che spiegare la realtà grazie a un linguaggio autenticamente ricercato, vasto, bellissimo eppure concreto e recepibile riesca, se non proprio a ribaltare, di certo a rimodulare, modificandolo, il modo stesso in cui si ride, si riflette, ci si commuove, ci si osserva e si cerca una propria postura esistenziale perché prospetta formule alternative e nuove di percettibilità e (auto)analisi.
Un’altra prova, seppure sul terreno della sceneggiatura televisiva (condivisa con Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo), è certamente Boris che ha, per sempre, sovvertito i canoni tradizionali del linguaggio, ricodificando le stesse leggi che governano l’ironia: dopo Boris ridere, in un modo pieno e totale, è diventata un’altra cosa.
Allora non è solo lo sguardo acuminato e dirompente sulle cose a scavare cunicoli interiori che ognuno può (ri)cominciare a riempire, ma anche, e soprattutto, il modo in cui questo viene rivelato: l’accesso illimitato alle parole è, probabilmente, il mezzo più potente di evoluzione emotiva e intellettiva. E anche se non sono le nostre, ma ci abbeveriamo da quelle di altri, poco male.
Crescerai e imparerai a scrivere bene, a formulare frasi sofisticate grazie a una sintassi complessa e strutturata. Non è vero. Andrebbe detto l’esatto contrario: crescerai e capirai che la scrittura è un talento per pochi e che la raffinatezza e la grazia dello stile è nella sottrazione e nell’autenticità. Perciò goditi l’ampollosità, gli esercizi di stile, il cripticismo e i virtuosismi perché un giorno sarai tu a rinfacciarli a te stesso. E sarà dolorosissimo. (Di nuovo, sfacciatamente, ispirato a In mezzo al mare).
Torre lo sapeva e ci ha reso tutti destinatari privilegiati di un lessico incommensurabile con il quale provare a orientarci.
In qualche modo, e prospettando una similitudine che potrebbe sembrare un azzardo, penso che Torre abbia innovato il linguaggio narrativo e drammaturgico al pari di Ennio Flaiano e Andrea Pazienza, irrompendo in un contesto governato da registri tradizionali e, per questo, rassicuranti e catalogabili; non deve essere stata la scelta più facile e comoda all’interno di un panorama culturale tendenzialmente retrivo e autoriferito. E forse è proprio la generosità della scrittura a essere stato il più radicale atto politico (e lascito anche per le generazioni future) di Mattia Torre.
Tempo fa, suggerendo il libro In mezzo al mare, sette atti comici, scrivevo che: “la scrittura e lo sguardo di Torre sono una tavola periodica degli elementi inedita, preziosissima e in continua espansione. Prima di lui non esisteva, dopo sì. Torre è un abbecedario imprescindibile”.
Con ogni probabilità, avevo già detto tutto: per raccontare Mattia Torre occorre partire dalla parola abbecedario e dal fatto che lui ne possedeva uno che prima di lui non c’era e che usava, in modo naturalissimo, per pensare, osservare, scrivere, parlare, ridere, ordinare al ristorante, e ogni altra cosa. Come se fossero semplicemente parole che si legano ad altre parole, invece erano moti di intuizione e rivoluzione straordinari.
Di abbecedari così ne nasce uno ogni cento anni e averlo potuto apprendere, per quanto mi riguarda, è stata una delle più grandi fortune della mia vita.
Il resto è nelle sue opere, è tutto lì dentro ed è l’unica cosa che, assieme al desiderio che tutta la produzione di Mattia Torre continui a essere diffusa, letta, rappresentata, può farci sentire meno orfani.