“La scrittura romanzesca ha il compito di mettere la maschera e nello stesso tempo di indicarla.”
Può la teoria letteraria suggerire, quando non prevedere, modalità future di produzione dell’opera?
L’immenso talento critico di Roland Barthes ci fornisce un esempio efficace per poter rispondere positivamente alla domanda. Nella seconda parte del suo primo breve saggio Il grado zero della scrittura (1953), Barthes tratta del trionfo e della caduta della scrittura borghese tradizionale, e del suo superamento da parte di alcuni autori, intrisi di una generale sfiducia nelle capacità espressive del linguaggio o addirittura nell’importanza e centralità della letteratura nella vita sociale. Istanze che serpeggiano parallelamente alla rottura degli schemi, e degli stereotipi linguistici, del romanzo realista ottocentesco.
La mia tesi è che le osservazioni, spesso estreme, di Barthes si adattino meglio all’ultima produzione letteraria di Pier Paolo Pasolini piuttosto che agli autori che egli stesso usa come esempi. Le ultime opere del poeta friulano (in realtà bolognese) sono state a lungo derubricate a esercizietti dai critici, in parte per la loro esibita rozzezza (di contro all’elevatezza stilistica della sua prima produzione), in parte per la radicale estraneità da ciò che comunemente si considera letteratura, in Italia o altrove. Estraneità ancor più subdola proprio per via della naturalezza e dolorosa spontaneità con la quale Pasolini compie questi ultimi “gesti” di scrittura, di contro alla esibita bizzarria di altre e ben note rotture del linguaggio, dai calligrammi ai manifesti futuristi, al citazionismo ideografico poundiano. Pasolini ha prodotto qualcosa di disturbante all’interno del canone letterario, ma senza le velleità avanguardistiche necessarie a creare una Letteratura “Altra”, da inglobare poi una volta culturalmente assimilato l’ampliamento del linguaggio.
Seguiamo il testo di Barthes a partire dal capitolo “La scrittura e il silenzio”. La passione autentica dello scrittore (e forse dell’artista tout court) è la creazione di una forma, la quale è “un valore che trascende la Storia, come può esserlo il linguaggio rituale dei sacerdoti”. La forma è innanzitutto creazione di una lingua, selezione dei segni, delimitazione del campo di significazione((In questi anni ancora Barthes non ragiona negli schemi della semiotica, ma ciò che esprime con metafore e strumenti retorici raffinati, specie nella prima parte (sul conflitto lingua-stile), può essere tradotto nel vocabolario degli scritti post-1964. Persino la nozione di “scrittura”, centrale nel primo saggio, è esplicitamente sostituita dalla nozione, più precisa, di “idioletto”, negli Elementi di semiologia del 1964 (in particolare in I.I.7).)), istituzione di un rito sociale. La fede in una forma che sia extra-storica, cioè in una letteratura che abbia valore al di là dei limiti del suo tempo e del linguaggio, è tipica dell’epoca borghese (e forse anche di quella classica).
L’obiettivo di scalfire questa fede innerva parte della scrittura a cavallo tra ‘800 e ‘900; i tentativi di “minare il linguaggio letterario” erano volti a disintegrare una forma “sacra” per ritrovare una freschezza originaria, un contatto con la vita e la realtà. Quello che Pasolini chiamava il dromenon, la vita vera, da contrapporre al legomenon((Dicotomia paolina. Non a caso il “tredicesimo apostolo” era diventato una figura centrale nell’immaginario pasoliniano: vi si paragona nelle Lettere luterane (1976), e ci è pervenuta perfino la sceneggiatura per un mai realizzato San Paolo.)), la sua rappresentazione.
La letteratura, nella ricostruzione barthesiana, passa da sistema chiuso a pratica sociale col realismo ottocentesco e finisce poi per cadere nella trappola del suo stesso linguaggio, ormai codificato. Il rifiuto del realismo condurrà a nuove leggi, nuove lacune, nuovi paradossi, nuovi miti stilistici; la fuga dalla prigione del linguaggio imprigiona sempre in un altro linguaggio, presto d’altronde istituzionalizzato, problema che affronteranno anche le avanguardie novecentesche.
Come primo elemento va notato che tutto un settore della letteratura moderna ha cercato “un linguaggio letterario che [raggiungesse] la naturalezza dei linguaggi sociali” ma, di qualunque valore siano gli esiti, “essi non sono altro che riproduzioni […], arie racchiuse tra lunghi recitativi di una scrittura totalmente convenzionale”.
Il lavoro sulla riproposizione dei linguaggi sociali sembra adattarsi appieno alla ricerca dialettale di Pasolini, prima poetica poi narrativa; dalla metà degli anni ‘60 però la sfiducia nella letteratura si fa sempre più pressante all’interno dell’universo di discorso del poeta, fino a divenire un’ossessione dichiarata e compiaciuta, anche se dai tratti disperati. La nuova categoria del linguaggio pasoliniano diventa quella dell’Inespresso Vivente, una delle varianti del dromenon. Dice Barthes che “la disintegrazione del linguaggio conduce inevitabilmente al silenzio della scrittura”, e il poeta delle Ceneri sembra muoversi su questo filo fin dal 1964, cominciando a far circolare una serie di opere provvisorie, ibride e volutamente anti-letterarie, frutto di una tensione interiore a voler eliminare la parola a favore dell’azione muta. Scegliamo, tra i molti possibili, due luoghi meno noti della scrittura pasoliniana come esemplificazione di questo dissidio: una poesia-intervista del 1966, sorta di manifesto programmatico per gli anni a venire, e uno spezzone della tragedia Porcile, redatta nello stesso periodo. Nella poesia si dice, con uno stile prosastico che già ricalca le intenzioni:
“Io vorrei soltanto vivere \ pur essendo poeta \ perché la vita si esprime anche solo con se stessa. \ Vorrei esprimermi con gli esempi. \ […] – in quanto poeta sarò poeta di cose. \ Le azioni della vita saranno solo comunicate \ e saranno, esse, la poesia, \ poiché, ti ripeto, non c’è altra poesia che l’azione reale…”.
Nella tragedia invece, Spinoza, venuto direttamente dal ‘600 per spiegare al povero Julian la sua perversione (o la sua concezione della realtà; in Pasolini sono sinonimi) ricorda che “molti santi hanno predicato \ senza dire una sola parola – col silenzio \ con l’azione, con il sangue, con la morte” e che questo linguaggio delle cose((Nel Gennariello del 1974 diventerà il “linguaggio pedagogico delle cose”; un altro modo per esprimere l’egemonia del reale, del concreto, sulla letteratura.)), spiegabile con la Ragione a lui cara, alla fine la trascende e lo porta a concludere che “spiegato Dio, la Ragione \ ha esaurito il suo compito, deve negarsi: \ non deve restare che Dio, nient’altro che Dio”. In Spinoza Dio è la Natura((“Non bisogna avere paura del naturalismo” è l’appello di fondo che il poeta suggerisce nei saggi sulla Semiologia del Cinema come Semiologia della Realtà, contenuti in Empirismo eretico (1972).)), vale a dire la Realtà; se nella prima citazione Pasolini espone la resa della poesia qui espone quella del raziocinio. Con la consapevolezza che la scrittura non produce altro che libri((“La letteratura non è altro che un mezzo per mettere in condizione la realtà di esprimersi da sola quando non è fisicamente presente” (P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, 2000, p. 137). E questa affermazione sembra sin troppo ottimistica: con gli anni Pasolini ne sarà sempre più convinto ma spostando l’ago della bilancia verso la realtà: la letteratura tenta di parlarne, ma non riesce.)).
D’altro canto nella storia del romanzo si è cercata a più riprese quella che Barthes definisce come “neutralità linguistica”, una esplosione del linguaggio che permettesse di costruire un mondo senza la letteratura, nel quale si dà più importanza alla vita. Questa scrittura è da lui indicata col termine “zero”, cioè il neutro tra i due termini di una polarità (linguistica). “La scrittura al livello zero è in fondo una scrittura indicativa, o, se si vuole, amodale […], una scrittura da giornalista”. Il grado zero è il tentativo di impiegare una “lingua basica, ugualmente lontana dai linguaggi parlati e dal linguaggio letterario propriamente detto (…) [una] assenza ideale dello stile”. Quello che si ottiene è che “i caratteri sociali e mitici si annullano a vantaggio di uno stato neutro o inerte della forma”; perciò il messaggio da comunicare è più importante dello stile, viene privato di quel sostrato contingente del linguaggio compromesso con la Storia, e arriva al lettore in forma “pura” (o così si vorrebbe).
Curioso che lo stesso Pasolini parli di “prosa giornalistica” in riferimento alla ricercata assenza di stile degli anni ‘70, come nella lettera a Moravia posta a conclusione del romanzo incompiuto Petrolio, specie di auto-saggio sull’opera: “è un romanzo ma non è scritto come sono scritti i romanzi veri: la sua lingua è quella che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici (…). Tutto ciò che in questo romanzo è romanzesco lo è in quanto rievocazione del romanzo”.
In Trasumanar e Organizzar (1971), raccolta poetica volutamente “brutta” e d’occasione, troviamo analogamente, un Comunicato all’Ansa (scelta stilistica) che recita: “Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza / di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo”. E ancora: “…capii che non volevo più scrivere poesie. Ora però, / ora che la vocazione è vacante / ma non la vita, non la vita…”. Cos’è questa mancanza di libertà? È uno dei motivi dell’assenza di stile, insieme alla necessità di “dire la vita”, ed è ad essa correlata: Pasolini sente l’urgenza di parlare, sente di avere fretta e dover dire tutto ciò che l’istinto gli suggerisce perché qualcosa nel mondo sta cambiando e lui ne è testimone privilegiato, in quanto intellettuale e scrittore. Per farlo deve sentirsi libero, persino dal prezioso strumento letterario.
Come rileva Enzo Siciliano, fin troppo cautamente: “lo dominava (…) una scontentezza mai sopita: la necessità di soluzioni non semplicemente stilistiche”. Pasolini stava in effetti anelando al rifiuto dello stile, alla scrittura neutra: primo tentativo strutturato è Teorema (1968) che realizza questa idea senza mostrarne le problematicità, poiché esse necessitano di una prospettiva massimalista e paratestuale((La peculiarità del progetto può essere esemplificata dal trattamento delle citazioni, elemento imprescindibile del romanzo sperimentale. Si veda l’appunto 97 (pp. 412-13) dove, al seguito di una citazione, Pasolini riporta “sempre Hobbes…oppure Locke”, come stesse citando a memoria durante un colloquio (e nell’accomunare Hobbes e Locke fa forse un’affermazione politica, segno che c’è del calcolo oppure che è impossibile chiudere il testo; tutte cose peraltro dichiarate), o si scusa per i riferimenti omerici (“un topos a quanto pare inevitabile”).
)). Le prove poetiche di questi anni più che altro sono esperimenti spuri, lacerti dentro i quali si squarciano momenti di totale rifiuto del compromesso letterario: Trasumanar è infatti insieme teoria poetica di tali lacune e suo deragliamento nei soprassalti lirici che prendono di tanto in tanto la mano all’autore tra una prosaica polemica e l’altra. Vero che anche Petrolio contiene talune imperfezioni ma sono coerenti con l’aspirazione totalizzante che lo innerva, e dichiarate volta in volta, con una esplicita consapevolezza della vacuità di ogni paramento letterario((E sono del resto davvero rare, soprattutto se si tolgono i momenti “decameronici” della Epochè, presenti proprio per raccogliere le spoglie cimiteriali degli stili (dalla fantascienza al racconto civile), azzerate dall’essere presenza parentetica all’interno dell’amalgama.)).
Gli esempi di Barthes che illustrano il grado zero sono pochi, e nessuno si adatta perfettamente alla sua teoria. Camus è tra i nomi più ricorrenti. Nella ricerca camusiana della neutralità linguistica (si pensi allo Straniero) vigono anche esigenze narrative, di mimesi col personaggio; la lingua zero, impersonale, è, in questo caso, uno specifico stile, legato al tipo di storia, semi-kafkiana, che si vuole raccontare. In Pasolini è invece espressiva, personale, realmente anti-narrativa e non in senso avanguardistico. La scrittura neutra, inoltre, dovrebbe restituire alle parole la loro veste di strumenti (vuoti). Oltre ad essere legata ad una volontà di adesione alla realtà che nulla ha a che fare col classico realismo letterario, è anche veicolo di pure idee, non (troppo) inquinate dalla forma. E infatti la poesia dell’ultimo Pasolini è strumento di polemica, di divulgazione di proposte, di pratica politica, di azione concreta “attraverso l’affermazione caparbia e quasi solenne dell’inutilità della poesia”, come scrive lui stesso in una auto-critica anonima a Trasumanar.
Il percorso storico tracciato da Barthes si può parafrasare così, seguendo il capitolo “La scrittura e la parola”: una volta che la realtà sfugge all’esperimento realista classico, emergono tentativi linguistici che vanno in direzione opposta ad esso (possono essere il linguaggio puramente espressivo dell’ultimo Joyce o quello meramente referenziale del primo Robbe-Grillet), anch’essi convinti di poter accedere alla realtà senza le convenzioni innaturali del realismo. Questi tentativi, però, sono contrari al nostro modo di concepire e fruire la rappresentazione delle cose, una specie di “morbo della diegesi”: la realtà è più aderente allo Ulysses che a Madame Bovary, ma troviamo più facile e immediata la ricostruzione a posteriori del secondo. Inoltre ad una sfiducia nelle strutture narrative e poetiche tradizionali si contrappone una eccessiva fiducia – per quanto disincantata, non illusoria e ludica – nella propria forma sformata, nel proprio gioco linguistico.
Sfiducia e ripensamento della letteratura, in senso barthesiano, si ritrovano appieno nell’opera di Borges ma con in aggiunta una tendenza autoriale verso una “forma altra”, comunque acquisibile dalla letteratura. Quello di Borges non è solo gioco metaletterario, desacralizzato, ma è l’idea della forma come progetto (Almotasim, Menard, Quain etc): “il senso dell’opera che il commento restituisce è l’opera”. Borges sostituisce alle caratteristiche sensibili, estetiche, del testo la sua intellettualizzazione e il godimento del testo, fittizio, avviene attraverso la fruizione del suo commento (paratesto). Cos’è questa se non la descrizione dell’ultimo Pasolini e in particolare di Petrolio? Borges mostra come “una volta abbordato il senso dell’opera non valesse la pena né costruire né fruirne la testualità concreta” e questa disillusione è “l’emblema (…) della paralisi che può bloccare la creazione letteraria nell’era della riflessività dell’arte (…), in cui il processo di concettualizzazione della letteratura è diventato riflesso”. In Petrolio manca però l’intellettualizzazione; anzi ad ogni occasione l’autore esibisce la propria teoria, il progetto, e invita ad accantonarla per andare al “sugo” delle cose. Borges riscrive la letteratura avendo assimilato il modello moderno della fruizione artistica, Pasolini la vuole invece scavalcare, imporre al lettore l’assenza di stile e rifiutare il gioco letterario.
Alle osservazioni di Benedetti, la lettura barthesiana aggiunge un ulteriore dettaglio: il poeta rigetta sia l’estremo flaubertiano che quello borgesiano ma non per elaborare una via di mezzo. Tenta di “informare”, accedere al reale, dal linguaggio neutro, cioè senza stile. Partendo già dal presupposto di non poterlo compiutamente fare. Ecco perché rimane tutto progettuale, provvisorio, d’occasione, brutalmente referenziale: il romanzo (o la forma-romanzo) reso oggetto nelle mani dell’autore e del lettore, con nessun filtro convenzionale o gioco illusorio (e conseguente scacco ermeneutico barthesiano).
L’idea di forma che tende ad altra forma attraversa tutta l’opera pasoliniana: poesia-intervista, romanzo-referto (Teorema), la nozione di sceneggiatura in Empirismo eretico fino al solito Petrolio, forma che tende a una non-forma che è sé stessa. Ma non è esercizio di stile: è in effetti un esercizio di non-stile, è la disperata ricerca di modi per dire il mondo solo mostrandolo, senza il filtro letterario. E’ il tentativo di una poesia ostensiva, dove ci si libera della prigione di tutte le forme, scardinandole, senza innocenza né ingenuità, già sconfitti ma fedeli alla vita, all’azione. Il racconto si sostanzia come creazione abortita sul nascere.
Diviene così centrale la nozione di paratesto. I paratesti, e i testi stessi, fanno il punto, accompagnano l’azione, non vi si sostituiscono, e l’azione è in un certo modo l’ipertesto. Il progetto finale di Petrolio sancisce in definitiva l’inseparabilità tra il testo e il paratesto, sia per intenzioni (pseudo)narrative sia per (extralinguistiche) contingenze esterne (la lettera a Moravia diventata parte integrante del testo).
Pasolini non si occupa più della forma ma della creazione della forma, del suo assemblaggio, cioè dell’azione autentica della scrittura, di ciò che avviene nella realtà e non sulle pagine. Ma non per liberare la letteratura dalle sue pastoie storiche sociali linguistiche, e crearne una versione più costruita e meno compromessa, come Calvino e Borges, ma per azzerarla, liberare il mondo dal suo peso millenario, denudarsi (invece che limitarsi a rivelare la nudità del re).
E qui avviene l’ulteriore passo in avanti di Pasolini: anche l’esclusione della forma è un progetto, un calcolo. Perciò l’autore non può fare semplicemente il gioco ironico borgesiano perché è consapevole anche di esso, dichiara subito che non potrebbe fingere di costruire una forma, né giocarci: narrerà e commenterà quella che sta facendo in quel momento, una soluzione spuria, imperfetta, ma sincera, eppure “mai nessuno può dir tutto, ossia essere totalmente onesto”; se non forse, come suggerisce Barthes, tacendo: “ogni silenzio della forma sfugge all’impostura solo col mutismo completo”.
Poco più avanti, nello stesso capitolo, Barthes descrive la situazione dello scrittore neutro, anch’egli infine destinato a divincolarsi nel “reticolo di forme irrigidite [che] soffoca l’originaria immediatezza del discorso”, vittima di nuovi automatismi che traghettano un linguaggio neutro verso una scrittura codificata. Pasolini, fin dagli anni ‘60 ma in particolar modo in Petrolio, non solo “dichiara” il reticolo ma ci si immerge: che il lettore non si illuda del legomenon! E arriva a “identificare la storia che si vuol raccontare con la progressiva impossibilità di raccontare quella medesima storia”; il testo, ancora una volta, ne è consapevole (cfr. Appunto 99, tra i più paratestuali dell’opera).
Per sfuggire dalla gabbia dei suoi propri miti formali (ogni scrittore ne possiede) Pasolini utilizza l’incompiutezza, il non-finito, come principale forma espressiva. La società non potrebbe mai codificarlo o renderlo di maniera. E difatti non è avvenuto. Questa forma va dalla semplice identificazione del testo con la sua bozza (La Divina Mimesis) fino al radicale progetto di Petrolio, un “movimento caotico privo di gerarchia che il narratore cerca inutilmente di controllare commentandone il brulicare incessante”, esibendone la natura paratestuale. La sfiducia nel linguaggio di Pasolini è, cioè, la sfiducia di chi vuole accedere alla Realtà e soffre dei limiti offerti dal linguaggio, non quella di chi pensa, calvinianamente, che il linguaggio non significa nulla e bisogna baloccare con esso, per non illudersi.
I numerosi rimandi interni in Trasumanar e Organizzar, veicolati da note a pie’ di pagina che entrano a far parte del linguaggio poetico (di nuovo, l’inseparabilità tra testo e paratesto) sono uno dei molti esempi della provvisorietà e metaconsapevolezza delle opere di quegli anni. Provvisorie perché abbozzate, indefinite, intente a costruire una mappa concettuale interiore, nell’ardua missione di glissare ipotesi interpretative, rendendo il lettore partecipe del processo mentale che vi presiede. L’autore vuole fare un discorso, e nient’altro; lo stile distrarrebbe (si veda in particolare la poesia Propositi di leggerezza).
L’idea non è quella di chiudere l’opera, privarla della necessaria ambiguità; l’autore afferma “ecco il concetto che desidero comunicare”, e prega che non venga eccessivamente filtrato dal linguaggio, che deve essere neutro, appunto, ma non può essere coerente. Il non-stile non può infatti privilegiare un tono del discorso, deve raccogliere tutti gli stili azzerandoli, gettarli nel corpo testuale e dichiararlo, senza curarsene troppo.
L’Appunto 84 di Petrolio sembra un invito a smetterla di interpretare: Pasolini vi delinea una teoria della realtà e dell’impossibilità sia di comprenderla attraverso il linguaggio (gli scrittori pre-”grado zero”) sia di irriderla (Borges o Calvino). Convinzione scaturita dall’esperienza del nulla sociale, l’assoluta vacuità del mondo circostante; tale esperienza non si traduce nella disillusione o nell’ascesi ma in un impegno ancor più radicale perché inutile, gratuito; una scommessa sulla vita già persa in partenza (come lo è quella sulle potenzialità espressive della letteratura), dichiarata con lucidità e limpidezza. E aggiunge in nota: “è da un’esperienza del genere che è venuta all’autore l’ispirazione per questo romanzo”. Ecco la chiave di tutto, buttata lì, parentetica quasi, soprattutto paratestuale. Non c’è null’altro da dire – sembra dire l’autore –, concentratevi su cose più importanti. Anche il romanzo, quindi, diventa una dimostrazione ostensiva((Questa è la misura autentica del pragmatismo anti-letterario pasoliniano. L’ostensione è infatti metodo di dimostrazione ricorrente nella filosofia che rifiuta la totale comprensione della realtà per mezzo di categorie astratte.)) che indica la realtà verso cui guardare, indicando al contempo la deformazione del proprio cannocchiale, e premunendosi contro qualsivoglia filologia o tentativo ermeneutico.
I primi segni di non-finito all’interno del corpus pasoliniano sono gli omissis nei testi poetici degli anni ‘60, i vuoti d’espressione. “Come nel cinema gli oggetti della vita entrano a far parte del segno, così l’ansia dell’autore intuita fuori dai testi può integrare l’impotenza delle parole” (cfr. Walter Siti, Tracce scritte di un’opera vivente), la poesia allora non sarà più il tentativo linguistico di esprimere la realtà (foss’anche la realtà interiore del poeta) ma un “tavolo anatomico su cui è esposto nudo il corpo dell’autore” ferito dalla inesprimibilità della vita e dell’azione dinanzi al linguaggio e alla letteratura. Poetare si è trasformato, quindi, nell’atto di poetare.
Il non-finito, naturalmente, è solo una delle espressioni del grado zero barthesiano. Teorema ad esempio è da inscrivere perfettamente nel novero delle opere al grado zero di quegli anni nonostante sia compiuto: un romanzo scritto imitando il referto giornalistico, mischiando forme diverse ma svuotate (anche l’uso della versificazione in alcuni capitoli è pretestuale, e si avvicina alla poesia prosastica del Pasolini tragediografo) e dichiarando nelle note i palesi riferimenti biblici e rimbaudiani. In questo senso la versione cinematografica è nettamente più enigmatica: il rapporto col cinema merita un lungo discorso a parte ma sicuramente la concezione pasoliniana di sceneggiatura è imparentata con le ricerche sul non finito. La sceneggiatura, che al poeta interessa come opera a sé, è per l’appunto solo il progetto di un’opera, è manchevole della sua realizzazione concreta, è un piano di lavoro sulla realtà (il cinema è il “linguaggio scritto della realtà”) necessariamente provvisorio ma dotato di un suo specifico “stile zero”.
In quale posizione sono autore e narratore all’interno di questa operazione? Sia nel realismo che nello stile impersonale individuato da Barthes si tendeva a far scomparire il narratore, renderlo quasi una macchina da presa sul mondo, e al contempo a ridurre la presenza dell’autore con i suoi pregiudizi e idiosincrasie. Il grado zero personale di Petrolio fa un passo ulteriore: nel suo voler mostrare la creazione di una forma e non la forma stessa, sostituisce al narratore l’autore empirico, il grande tabù del testo. Colui che si rivolge al lettore non è un narratore onnisciente ma lo stesso Pasolini, una persona fisica che parla colloquialmente descrivendo quello che avviene nella vicenda e come ha intenzione di dirigerla; non si avverte infatti nessuno scarto tra lo stile del romanzo e quello della lettera “privata” a Moravia. L’autore empirico non si limita a entrare nell’opera, ma diviene il segno vivente del significante((Pasolini sembra accostarsi asintoticamente a una concezione performativa della letteratura, carattere che, presumiamo, il completamento dell’ultimo romanzo avrebbe accentuato. Lo scrittore aveva già avuto a che fare con la performance art, partecipando come “corpo-soggetto” all’opera Intellettuale (1975) di Fabio Mauri, nella quale veniva proiettato il suo film Il Vangelo secondo Matteo sul suo petto nudo, all’interno di un museo. Altri indizi: l’interesse per Las Meninas di Velazquez (o meglio, per l’analisi classica foucaultiana, riguardante il corpo dell’autore) “trasposta” nella tragedia Calderon (1973) o l’iniziale idea di inserire il proprio corpo nudo nel Fiore delle Mille e una notte (1974) e, ancor più radicale, la commissione al fotografo Pedriali di scatti (sempre nudi) del poeta alla Torre di Chia, da inserire proprio in Petrolio. L’autore come segno vivente e come performer, la scrittura diventa il gesto della scrittura e vi si eclissa dietro.)) la traccia della realtà, ponte tra essa e la (non-)scrittura.
Molte delle osservazioni fatte potrebbero spingere a identificare Petrolio come un precursore di quello che in teoria letteraria è chiamato “romanzo massimalista”, una specie di evoluzione postmoderna dell’ “opera-mondo”, del quale in Italia è uscito uno studio a firma Stefano Ercolino. Il romanzo massimalista è una categoria predominante nel panorama letterario internazionale ed è spesso associata al romanzo americano contemporaneo (Foster Wallace, Pynchon, DeLillo, Franzen principalmente, anche Eggers mai citato da Ercolino) ma ci rientra un’opera estrema come 2666 di Bolano. Le sue caratteristiche (estrema lunghezza, intersemioticità, enciclopedismo, esuberanza diegetica, realismo ibrido etc) vengono divise dallo studioso in due classi caratterizzate da altrettante funzioni: la funzione-caos e la funzione-cosmos. L’una dispersiva e l’altra organizzativa, sono i due poli magnetici che sospendono in un flusso contrastante la materia narrativa.
Probabilmente Petrolio sarebbe stato pionieristico nell’universo romanzesco contemporaneo, se fosse stato terminato e pubblicato negli anni ‘70. Il suo destino, in linea (in parte involontariamente) con le tesi barthesiane, è stato quello di restare ai margini di qualunque sperimentazione ed evoluzione. Ma di soppiatto vorrei suggerire che esso è già il superamento di un’opera come, ad esempio, Infinite Jest. Le proprietà che Petrolio possiede all’interno della tassonomia ercoliniana sono perlopiù quelle attribuibili alla funzione-caos. Manca ovviamente la compiutezza, l’aspirazione totalizzante è consapevolmente inevasa: Pasolini non vuole organizzare un microcosmo ma l’azzeramento di ogni cosmogonia. E l’adesione al grado barthesiano lo priva di tutte quelle tecniche che restituiscono centralità al narratore (lì onnisciente, qui addirittura abolito) e ai punti di vista dei personaggi (assenti nel laboratorio). Nel fare la sua opera-mondo Pasolini, come sempre, utilizza la figura retorica della sineciosi e dello scandalo: combatte il massimalismo col massimalismo!
La prospettiva pansemiologica (secondo la terminologia di Siti), di cui partecipa non solo Petrolio ma tutto l’ultimo Pasolini, può essere vista come un’anticipazione della intersemioticità massimalista; l’ispirazione di fondo, il movimento tellurico che la anima è, tuttavia, anti-letterario. Siti coglie il punto quando dice che “qualunque segno verbale o iconico, [può] essere integrato figuralmente dall’esempio vissuto di colui che lo traccia […]. La vita stessa dell’autore diventerebbe allora, da un punto di vista semiotico, parte integrante del segno”. Si sentono echi peirceani (l’uomo come segno) in un autore che anela alla sospensione del processo interpretativo: ancora contraddizioni, ancora realtà viva!
La parabola di Pasolini è quella della ricerca costante di un linguaggio adatto a dire la realtà, e la progressiva scoperta della sua inesistenza. Forse il cinema, stando alle tesi forti sostenute nella sua Semiologia abbozzata, è quello che cercava, ma scontando una notevole ingenuità semiologica, della quale egli stesso fa ammenda.
Le contraddizioni tra Ordine e Disordine, Vita e Storia, Realtà e Finzione, Autore e Narratore sono esibite fino al parossismo. Pasolini non può risolverle né superando la letteratura, né distruggendola in senso avanguardistico, perché finirebbe per scimmiottare nuove forme. Si limita a fare e basta. Vede le contraddizioni del suo fare e le comunica. Questo atto squisitamente anti-letterario è, barthesianamente, uno dei vertici della letteratura del ‘900, inevitabile e coraggioso punto di arrivo. Del resto “ogni nuovo scrittore apre dentro di sé il processo alla Letteratura”.
La mia tesi è che Pasolini riesce a fare ciò che teorizza Barthes in modo meno innocente e più consapevole di chiunque altro, massimalisti nati alla fine della Letteratura compresi; realizza il progetto di Barthes in una forma progettuale. Esce fuori dalla letteratura (con Petrolio) e introduce una sistematica poetica dell’incompiutezza, partendo già sconfitto. Subisce infatti uno scacco espressivo, senza dubbio. Ma è così esibito e intenzionale da creare un modello a sé: una letteratura più che impura((Secondo la ormai classica accezione di Carla Benedetti (Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri 1998).)), imperfetta. Che va quindi giudicata e valutata tenendo conto dei presupposti barthesiani. Una letteratura che fa quello che fa (o dovrebbe fare) ogni opera d’arte: indossare una maschera per poterla indicare.
Nessun’altra lettura dell’ultimo Pasolini (o perfino retroattiva dell’intera opera) che non sia quella barthesiana è efficace nell’inquadrarne gli esiti. Né quella mistagogica di Zigaina né quella meramente anti-moderna e sadiana della vulgata ufficiale. Pasolini ha passato l’ultimo decennio in una tensione verso una Forma Altra che fosse anche l’informe Forma definitiva; si è preparato all’abbozzo di un romanzo che racchiudesse la vita, per poi lasciare abbozzata la stessa bozza, in piena sintonia con la natura di fondo del progetto. Come Barthes si è mosso tra critica e verità, politica e scrittura, vita e linguaggio e ha scoperto che l’unico strumento per perforare il mondo concesso agli uomini era falso e bugiardo. Nella migliore delle ipotesi incompiuto.
Un passaggio del Grado zero è particolarmente illuminante ai fini della tesi: laddove si dice, riassumendo i precedenti capitoli, che “lo scrittore riconosce la vasta freschezza del mondo attuale, ma per darne conto dispone solo di una lingua splendida e morta”, ed è esattamente lo iato che percepisce l’ultimo Pasolini, una autentica “tragicità della scrittura” nella quale la Letteratura è “rituale e non (…) riconciliazione”. L’intero paragrafo è una psicologia pasoliniana, pre-diagnosticata dal critico francese, e al contempo è la sintesi delle conseguenze e delle motivazioni dell’operazione letteraria fin qui descritta, così come emergono dalle pagine di Petrolio, per poi tornare al mittente.
Infatti Barthes nel 1978-79 tiene un corso al Collège de France dal titolo La Préparation du roman durante il quale simula la stesura di un romanzo, si prepara alla redazione di un’opera letteraria (cosa che aveva fatto tutta la vita, come alcuni critici rilevarono già allora, Robbe-Grillet in testa). Inutile dire che il romanzo non verrà mai scritto (“Non posso tirar fuori un’opera dal mio cappello”) ed anzi esso finisce per coincidere col corso stesso, diventa una forma-progetto.
Sembrerebbe un esperimento simil-borgesiano (commento apocrifo a un testo inesistente) ma il corso è un vero commento in itinere a un’opera mentre la si fa: è il racconto della creazione di una forma, esattamente come Petrolio. La resa pasoliniana dinanzi all’impossibilità di esprimere la vita attraverso il linguaggio, sembra essersi trasmessa al primigenio ispiratore della teoria del non-stile. In molte parti della Préparation Barthes tratta addirittura del gesto dello scrittore (che è lo stesso Barthes: <<autore = narratore>>, altra analogia con Petrolio), del suo metodo e della predisposizione con la quale si accinge a eseguire il compito prefissato: “Ciascuna delle prove che l’autore si propone per entrare nella scrittura del romanzo è tappa di una sfida parziale lungo un rito d’iniziazione”.
Mentre Barthes nel suo commento si appoggia a un testo-alter-ego, che identifica con Proust, Pasolini postula da solo il testo, anzi i (para)testi. Nella esperienza umana di Barthes, così com’è delineata nella Préparation, è sussunta tutta la problematica del Pasolini degli anni ‘70, ne è quasi la matrice minimale. Anche lui, come gli autori descritti nel suo primo lavoro, non trova il linguaggio adatto e rinuncia, rinuncia perfino al grado zero.
Il critico francese, nella sua produzione saggistica (anche e soprattutto quella contaminata con forme narrative) mostra le mani del creatore nella creazione dell’opera, ma lascia aperto il discorso sulla sua opera in quanto metalinguaggio, e in quanto portatrice di una ibridazione, o quantomeno un’ambiguità, nel rapporto tra letteratura e scienza della letteratura. Il lettore avrebbe bisogno di un metametalinguaggio per vedere le mani di Barthes all’opera (e la Préparation forse è proprio questo).
Pasolini blocca la catena dei metadiscorsi scoperchiando in modo banalmente referenziale l’ibridazione e producendo un discorso letterario in cui c’è anche la critica, e il work in progress della critica, in cui le mani del creatore si vedono a tutti i livelli. Petrolio è la messa in opera (quasi)letteraria della gerarchia dei metalinguaggi intrinseca in ogni testo.
Attraverso la scoperta del romanzo tentato si può suggerire, in maniera complementare alla tesi iniziale, una lettura pasoliniana dell’ultimo Barthes, in cui il movimento ebefrenico di influenza/anticipazione/diagnosi degli intenti torna indietro e restituisce al progetto artistico del critico le pratiche del poeta, a loro volta una evoluzione artigianale delle teorie del critico.
Barthes indica a Pasolini una via verso l’antiletteratura, che quest’ultimo paradossalmente sviluppa in senso letterario, e così facendo struttura una forma tentata che nessun altro tenterà, neanche Barthes (anche se sembrerebbe col corso sulla Préparation voler andare in quella direzione, rimanendo anch’egli in una fase embrionale della scrittura).
L’anelito alla forma, il gesto del creare, si è sostituito, infine, alla creazione.