Patricio Guzmán e la memoria del Cile

Chile está lejano y es mentira
no es cierto que alguna vez nos hayamos prometido
son espejismos los campos
y sólo cenizas quedan de los sitios públicos
Pero aunque casi todo es mentira
sé que algún día Chile entero
se levantará sólo para verte
y aunque nada exista, mis ojos te verán

(Raúl Zurita, Pastoral de Chile)

 

 

Uno dei molti avvenimenti di martedì 11 settembre 1973 in Cile è l’arresto di Patricio Guzmán, documentarista e sostenitore del presidente socialista Salvador Allende. Il colpo di stato militare, a lungo preparato e già tentato tre mesi prima, quel giorno aveva avuto successo: sotto la guida del generale Augusto Pinochet l’esercito aveva assediato e bombardato la Moneda, il palazzo presidenziale, e nel giro di poche ore avrebbe assunto i pieni poteri. La caccia ai dissidenti politici cominciò subito. Lo Stadio Nazionale, il principale impianto sportivo di Santiago che solo undici anni prima aveva ospitato i mondiali di calcio, era già pronto per essere riconvertito a campo di concentramento e per due mesi fu teatro di torture e stupri ai danni di decine di migliaia di persone.

Guzmán rimase nello stadio per quindici giorni e in Cile per poche settimane. Come molti aveva fretta di lasciare il paese per mettersi in salvo dalla ferocia del regime, ma soprattutto doveva trafugare alcune bobine prima che i militari le trovassero e le distruggessero. L’Equipo Tercer Año (il “gruppo del terzo anno”, in riferimento al terzo anno della presidenza Allende iniziata nel 1970) si era costituito e aveva iniziato a girare materiale nel febbraio del 1973, allo scopo di documentare la crisi cilena e la crescente ostilità di alcuni settori della società nei confronti di Allende. Per mesi Guzmán e suoi compagni erano scesi in strada tra gli elettori e avevano intervistato i minatori in sciopero e i lavoratori dei campi, con l’attenzione alla classe operaia che la loro provenienza socialista imponeva e senza trascurare il ruolo controrivoluzionario della borghesia cilena. L’obiettivo del gruppo, avrebbe poi dichiarato lo stesso Guzmán, non era imbastire un’apologia partigiana dell’operato di Allende bensì “rappresentare tutti i punti di vista all’interno della sinistra”. Quelle quattro ore e mezzo di girato, che arrivano a coprire anche la giornata del golpe, sono oggi più conosciute come il documentario in tre parti La batalla de Chile, la lucha de un pueblo sin armas: una raccolta fondamentale di testimonianze in presa diretta dei fatti del 1973 ma anche, secondo la studiosa Ana López, una “analisi degli eventi dialettica e marxista […] precisa, calcolata, intenzionalmente politica, che si serve delle strategie narrative della finzione come strumento di legittimazione”. Il montaggio del documentario, realizzato grazie all’aiuto e ai finanziamenti dell’Instituto Cubano de Arte e Industria Cinematográficos, non segue infatti la cronologia degli eventi con neutralità ma offre un commento, facendo ricorso a flashback e anticipazioni (la prima parte, La insurrección de la burguesía, si apre col bombardamento della Moneda per poi tornare all’inizio del 1973 e ricostruire i mesi precedenti al colpo di stato), scarto ironico tra immagini e racconto in voice-over e altri espedienti tipici della fiction, visibili abbastanza da rendere la presa di posizione politica onesta e inequivocabile anziché subdola e truffaldina.

Dopo La batalla de Chile Guzmán non ha più abbandonato né la forma del documentario né la volontà ossessiva di parlare del popolo cileno, degli anni della dittatura, di un trauma collettivo giudicato insanabile; al contempo, ha continuato a impiegare, affinandole e arricchendole, quelle “strategie narrative” che hanno reso i suoi lavori sempre più ibridi e personali, oggetti a metà tra la meditazione filosofica e l’indagine poetica, tra il resoconto storico e l’esplorazione del territorio sudamericano. Più di tutto, la sua filmografia è un continuo tentativo di trasmissione della memoria, esplicita tattica di resistenza e guerriglia artistica contro la rimozione e l’oblio. L’uso politico del ricordo è al centro di Chile, la memoria obstinada, film del 1997 (disponibile online) che crea infiniti raccordi tra passato e presente mettendo a confronto la generazione che ha vissuto il 1973 e quella nata sotto la dittatura. Il film documenta il rientro in patria di Guzmán e soprattutto di La batalla de Chile, applaudito e premiato nel mondo ma bandito dal regime. Chile, la memoria obstinada è soprattutto un film di interviste: Guzmán cerca testimoni diretti dell’assedio alla Moneda, parla con gli altri membri dell’Equipo Tercer Año (tranne Jorge Müller Silva, che al contrario degli altri non espatriò e scomparve nel nulla nel 1974) e anche con il vecchio zio che lo aiutò a nascondere le bobine. Ciò che gli interessa davvero, però, è osservare i ragazzi che non dispongono né dei ricordi diretti né delle fonti, in modo da capire come l’accesso alla memoria modifichi la capacità di analisi dei fatti. Uno dei motivi per cui ha riportato il documentario in Cile è proprio questo: vuole mostrarlo nelle scuole. La differenza di atteggiamento tra gli studenti che discutono con distacco della legittimità di sospendere la democrazia per poi piangere increduli durante la proiezione de La batalla de Chile prova l’importanza, oltre che la bontà, degli sforzi di Guzmán.

È appunto in ragione del suo elevato valore trasformativo che il ricordo non potrà mai essere un “tema cerrado”, una questione chiusa per sempre. I lungometraggi a cui Guzmán ha lavorato negli ultimi dieci anni (Nostalgia de la luz, 2010; El botón de nácar, 2015; La cordillera de los sueños, 2019) mettono di nuovo a tema i suoi motivi prediletti e li radicano nella geografia cilena, nel suo deserto settentrionale, nella fredda Patagonia, nella formidabile cordigliera che separa il paese dal resto del continente. Poiché Guzmán non è più tornato a vivere in Cile dopo il 1973, visitare e filmare di nuovo quelle zone significa prima di tutto attraversare lo spazio-tempo e tornare agli anni della sua giovinezza, in un viaggio sentimentale che coinvolge non solo lui stesso ma anche tutta la sua generazione. Le geografie ricostruite da Guzmán sono allora geografie del ricordo in cui gli eventi narrati si sovrappongono ai luoghi in cui sono avvenuti, e la mappa srotolata in El botón de nácar offre disegni di fiordi, sabbie e rilievi montuosi ma può anche raccontare le vicende di un uomo e del suo paese. La traduzione italiana che cambia El botón de nácar (alla lettera: il bottone di madreperla) in La memoria dell’acqua, sottolineando così che ambienti ed elementi naturali sono potenziali testimoni della storia e se interrogati sapranno riferirla, coglie e rispetta l’argomento centrale che viene ribadito in ciascuno dei tre film: il 1973 è stato un anno irrimediabile che ha fratturato per sempre il tempo del Cile, spaccandolo in un prima e un dopo che non possono essere ricomposti ma soltanto dialogare attraverso la nostalgia per un passato ricco di promesse inesaudite, la memoria attiva di tutto ciò che è sparito, e il desiderio di conoscere e vivere un’ideale linea temporale che non prevede il golpe e che assume per questo i contorni del sogno.

Nostalgia de la luz mostra per prima cosa l’osservatorio astronomico costruito nel deserto di Atacama, nella parte settentrionale del paese. Mentre si sofferma sul telescopio, Guzmán parla fuori campo della sua passione infantile per l’astronomia e descrive quegli anni come un periodo in cui “esisteva solo il tempo presente”, un’epoca ora allontanata e resa inaccessibile dal colpo di stato. Poiché nell’esperienza comune non occorre sopravvivere a una dittatura militare per afferrare la profondità del tempo, Guzmán fa in modo che l’unicità del caso cileno emerga grazie all’affiancamento e al paragone con altre pratiche di scavo nel passato. Il deserto di Atacama diventa così un crocevia attraversato da viaggiatori del tempo, ciascuno all’inseguimento di un punto di origine: gli astronomi dell’osservatorio sollevano lo sguardo per ricostruire la storia dei corpi celesti e delle galassie, mentre a poca distanza scavi archeologici hanno portato alla luce manufatti di antiche popolazioni e persino corpi perfettamente conservati da diecimila anni. Il deserto è battuto anche da altre ricercatrici: sono le madri, sorelle, compagne di vita dei desaparecidos, i dissidenti politici che la polizia segreta di Pinochet (DINA), ha ucciso e fatto sparire nel nulla. Guzmán si serve delle possibilità espressive del linguaggio filmico e riprende queste donne di spalle, piccole e isolate nel paesaggio monotono e silenzioso come piccole e isolate sono nella loro impresa, sempre chine sul terreno polveroso a cercare frammenti di ossa e indizi di sotterramento che possano rivelare un corpo. In un altro momento, gli è facile evidenziare le gerarchie della memoria istituzionale mostrando prima i corpi mummificati dei primissimi abitanti del deserto, allineati con cura e ben distanziati in una stanza che mantiene sempre la temperatura adatta alla conservazione di materiale organico, e poco dopo gli scatoloni da trasloco in cui sono stati ammassati i più recenti resti dei desaparecidos che non è stato possibile identificare. Esplode così la differenza tra le pur importanti indagini scientifiche e archeologiche (che però ti fanno “dormire tranquillo”, ammette l’astronomo Gaspar Galaz) e la ricerca di quei resti umani: risiede nell’urgenza etica della giustizia, nella necessità di riconoscimento pubblico delle vittime del regime, nella creazione di avamposti di memoria che si oppongano agli insabbiamenti e alle verità taciute.

Nostalgia de la luz mostra come i cileni siano in grado di essere più precisi circa la vita delle stelle e delle popolazioni precolombiane, pur così lontane nello spazio e nel tempo, che circa le morti di una dittatura che si è conclusa soltanto nel 1990. Questo doppio binario mnemonico e cognitivo non è privo di ripercussioni. Prima dei titoli di coda, Guzmán afferma che le persone in grado di conservare la memoria sono le uniche davvero capaci di vivere nel presente, mentre chi dimentica non vive da nessuna parte. Apolide del tempo, l’immemore non conosce il passato per cui non sa abitare il presente né immaginare un futuro. Nell’appendice a Le vene aperte dell’America Latina, aggiunta sette anni dopo la prima pubblicazione del 1971, il giornalista e scrittore uruguaiano Eduardo Galeano scrive:

L’oppresso è obbligato a far sua una memoria fabbricata dall’oppressore, avulsa dalla realtà, inaridita, sterile. Solo così si rassegnerà a vivere una vita che non è la sua come se fosse l’unica possibile. Nelle “Vene” fa capolino un passato evocato sempre a partire dal presente, che è memoria viva del nostro tempo. Questo libro è una ricerca di chiavi della storia passata che contribuiscano a spiegare il tempo presente, e anch’esso è storia, a partire dal presupposto che la prima condizione per cambiare la realtà è conoscerla.

Un ricordo puntuale e dettagliato del passato (una “memoria viva”) è quindi utile a giudicarlo con chiarezza e magari correggerne gli effetti, agendo secondo giustizia. Sarà forse per questo che in Cile vige ancora, seppur rimaneggiata, la costituzione varata nel 1980 dal regime di Pinochet. Inoltre, nessuna delle riforme messe a punto con la consulenza degli economisti della scuola di Chicago è mai più stata messa in discussione, come hanno denunciato anche i manifestanti scesi in piazza negli ultimi mesi del 2019 per far sentire la propria voce contro le disuguaglianze economiche. La cordillera de los sueños è stato girato prima di quelle proteste, ma si dedica a illustrare proprio i gravi problemi sociali e la svendita delle risorse naturali lasciati in eredità dagli anni della dittatura, per suggerire che il ritorno alla democrazia non sarà mai sufficiente se le statistiche continuano a fotografare un paese tra i più iniqui al mondo.

Poco dopo l’uscita di Nostalgia de la luz il regista austriaco Michael Haneke, che come Guzmán vive in Francia, poté riflettere sui lasciti del colonialismo nella coscienza collettiva dei paesi dominanti e sviluppare un ragionamento molto simile. Il processo di rimozione del protagonista di Caché (2005), che da piccolo ha volontariamente danneggiato per sempre la vita di un coetaneo algerino e da adulto dimentica e nega l’episodio, riproduce su scala l’incapacità della Francia di ricordare e così riconoscere il proprio passato coloniale. Nel caso della Francia si tratta di un meccanismo autoassolutorio, una comoda smemoratezza in grado di svincolare il paese da ogni responsabilità storica. Ostinandosi a scordare, la Francia consentirà per sempre a se stessa di voltare le spalle a chi abita le ex colonie e continua a convivere con gli effetti materiali di secoli di minorità politica ed economica. Per il Cile non è proprio la stessa cosa: oltre al dominio spagnolo, ha conosciuto anche una sorta di colonizzazione per procura in cui a farsi garante degli interessi del capitale straniero sulle risorse del paese non è stato un uomo giunto da lontano, bensì un cileno. El botón de nácar stabilisce una perfetta continuità tra la spoliazione ai danni delle tribù della Patagonia a partire dal XVI secolo e quella subìta dal popolo cileno dopo la caduta di Allende. La progressiva scomparsa degli indigeni per morte o per assimilazione, sostiene Guzmán, può e deve essere paragonata alla scomparsa degli oppositori politici nell’ambito dell’Operazione Condor se si vuole comprendere quella che Galeano chiama la “catena di dipendenze” dei paesi sudamericani, sfruttati e sottomessi da soggetti sempre diversi per motivi sempre uguali. Pinochet va allora collocato al culmine di una storia di colonizzazione a cui Allende desiderava invece rimediare; e se nel 1972 fu varata una legge che prevedeva la restituzione dei diritti territoriali alle popolazioni indigene, il regime militare si distinse per la crudeltà della repressione contro i nativi.

Le tante storie del Cile sono ben custodite e talvolta scompaiono ma possono essere ritrovate, nel deserto come nell’acqua. Uno dei metodi che la DINA adottava per far sparire i nemici politici era gettarli nell’Oceano Pacifico, dopo averli assicurati con del filo spinato a un pezzo di rotaia e averli chiusi in un sacco. Le vittime dei voli della morte, così chiamati perché i corpi venivano lanciati da un elicottero in volo sull’oceano, si aggiungono alla conta dei desaparecidos e ci sono ormai poche speranze di recuperare i loro cadaveri: finora sulle coste cilene è giunto solo il corpo di Marta Ugarte, un’insegnante comunista che fu torturata e scaricata in mare nel 1976. Ma la memoria dell’acqua è ostinata, incancellabile, beffarda. Affiorano pezzi di metallo, e nella ruggine di uno di questi è incastonato un bottoncino di madreperla. Poiché nessuno veniva spogliato prima di essere gettato nell’oceano, e poiché la rotaia veniva legata al torace in corrispondenza dell’abbottonatura della camicia, questo bottoncino è una prova concreta, reale, tangibile dei voli della morte. I bottoni di madreperla erano anche moneta di scambio tra i primi conquistadores e i nativi del continente americano: è un ulteriore aggancio tra due esperienze di brutalità e sopraffazione oltre che un buon esempio di un espediente caro a Guzmán, vale a dire la continua risignificazione degli oggetti narrati. Così come il bottoncino può raccontare la tragedia delle tribù della Patagonia ma anche quella dei desaparecidos, in La cordillera de los sueños la pietra ricavata dalle montagne diventa pavimento stradale insanguinato che testimonia la repressione delle manifestazioni contro la dittatura, ma anche materiale di costruzione delle nuove infrastrutture del Cile moderno. L’Oceano Pacifico può facilmente essere associato ai voli della morte, ma anche ai pezzi di rotaia che hanno dato ragione ai parenti delle vittime. Il deserto di Atacama è un ossario muto, ma anche il luogo in cui un piccolo gruppo di astronomi imprigionati nel campo di Chacabuco trovava sollievo nell’osservazione e nello studio delle costellazioni. La storia del Cile è così densa e ricca da essersi accumulata a strati su oggetti, edifici, vegetazione, rocce e corsi d’acqua, e da continuare a renderli più ambivalenti e polisemici a ogni curva. La ricerca documentaristica di Guzmán consiste proprio nell’apertura di tutti gli scrigni, nel recupero di tutti i bottoncini.

La cordillera de los sueños continua a tracciare una mappa sentimentale del paese e approfondisce il tema del valore sociale e politico della testimonianza storica. La cordigliera rappresenta per Guzmán il sogno di poter tornare a casa, un sogno che mai potrà avverarsi perché il Cile così intensamente anelato è stato spazzato via per sempre nel 1973. La nostalgia dell’esule riguarda più un momento preciso della sua vita che il paese da cui è fuggito e a cui infatti non è tornato neanche dopo il 1990; e d’altronde gli ultimi film di Guzmán poggiano proprio sull’assunto che tempo e luoghi sono così strettamente intrecciati da rendere qualsiasi distinzione inoperabile e soprattutto inutile. L’ampia sezione dedicata al fotografo e videomaker Pablo Salas, che ha documentato la resistenza sotto gli anni della dittatura e continua a presenziare a ogni manifestazione, ogni corteo, ogni sciopero, permette a Guzmán di insistere di nuovo sulla necessità di rendere visibile ciò che non guadagna spazio nei canali ufficiali, in questo caso la partecipazione popolare alla vita politica. Salas ha costruito un archivio decennale, distribuito sui vari supporti di cui l’avanzamento tecnologico gli ha permesso di disporre, che non sa decidersi a organizzare e montare. Non c’è proposta informativa, riflette, che non sia anche un atto di preselezione e scrematura teso a costruire una narrazione. L’esempio che porta è quello della propaganda dei canali televisivi asserviti al regime, ma riconosce anche che le VHS e gli hard disk in suo possesso non contengono che una frazione di quanto accaduto in Cile — e che, anche se animato da ottime intenzioni, chi si incarica di portare messaggi dal passato ha il compito di decidere che cosa va salvato e che cosa può essere dimenticato. Salas non nega il valore del ricordo trasmesso ma porta all’attenzione dello spettatore il problema spinoso della responsabilità del documentarista, che non è un ambasciatore indifferente ai fatti ma sempre, e a dispetto di ogni pretesa di oggettività, istanza narrante.

Nostalgia de la luz, El botón de nácar e La cordillera de los sueños contengono molti episodi della giovinezza di Guzmán, spesso usati come punti di appoggio per allargare il quadro (per esempio, il suo compagno di scuola annegato nell’oceano e di cui non si è più trovato il corpo diventa “il mio primo desaparecido“). Tali rimandi sono necessari, per il regista-esule, a mantenere il legame con la patria, a essere integrato in una storia che da tempo ha smesso di essere la sua. Per questo motivo non è facile determinare la distanza che Guzmán frappone tra se stesso e i paesaggi del Cile. Nel suo sguardo ci sono desiderio e rimpianto, ma anche lo spaesamento di chi confronta ciò che vede ai propri ricordi e si sorprende delle differenze. Ogni inquadratura esprime allo stesso tempo affetto, slancio e un indefinibile senso di estraneità e disagio. Il deserto, le montagne e l’oceano cileni non sono cartoline per potenziali turisti né limpide immagini destinate a un documentario naturalistico, però neppure spazi familiari ripresi da chi li ha sempre vissuti. Sembrano piuttosto fonte di stupore e meraviglia e al contempo abbozzi di opere ancora in lavorazione, e forse è proprio così: per poter essere chiari e definiti necessitano anche delle memorie di un compagno espatriato, di una donna indigena, di un sopravvissuto ai campi di tortura, di chiunque abbia subìto le conseguenze del colpo di stato.

Guzmán lascia parlare quante più persone possibili per lo stesso motivo che lo spingeva a filmare le assemblee dei lavoratori nel 1973: il suo intento è proporre una narrazione alternativa a quella ufficiale, una storiografia del popolo che dopo il golpe è forse più corretto chiamare storiografia dei vinti, in modo da privilegiare prospettive minoritarie e spesso inascoltate. Non ci sono né esitazioni né ambiguità nella scelta di che cosa valga la pena tramandare: Guzmán lavora per ascoltare e dare dignità alle voci soppresse, a cui aggiunge la sua, e questa opera di salvataggio e trasmissione gli consente di tratteggiare una mappa aggiornata e per quanto possibile collettiva del Cile, che possa guidare non tanto da nord a sud o dal deserto alla cordigliera alla costa, quanto tra le mille storie che ciascun luogo può raccontare.