La solitudine dei maratoneti

“Indicazioni ad Interim per la gestione dello stress lavoro-correlato negli operatori sanitari e socio-sanitari durante lo scenario emergenziale SARS-COV-2”: questo è il titolo di una delle ultime pubblicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità. Non colpisce la parola stress, e che sia correlata alla pandemia COVID o agli operatori sanitari. È quel “ad interim”.

Ad interim è una cosa che deve essere provvisoria e invece, solitamente, si dispiega almeno per mesi. Il ministro ad interim. Il primario ad interim. Le misure ad interim, che poi diventano provvisorie-definitive, e poi definitive. Ad interim lascia uno sconfortante senso di indefinito prolungato. Ad interim non è “finisce domani”, non è “lo cambiamo fra un mese”. Ad interim. Dopo l’estate, dopo l’autunno, dopo le feste. Ad interim.

Sono state spese moltissime parole e raccontate molte storie, soprattutto nel primo periodo dell’emergenza, per descrivere l’esperienza del personale sanitario — quasi tutte centrate sulla difficoltà legata ai dispositivi di protezione individuale, sulle sei-sette-otto ore da passare bardati, camice sovracamice sovrascarpe due paia di guanti mascherina FP2 occhiali casco, il peso fisico. Non poter andare in bagno o a mangiare o toccarsi, pena doversi cambiare da capo e un PPI perso — e sappiamo quanto rari fossero, questi benedetti DPI. Anche durante i corsi di preparazione su come accedere ai reparti isolati, l’attenzione era tutta su quello: a un certo punto non ce la farete più, con tutte quelle protezioni addosso, vi verrà una crisi di panico. Abbiamo istituito un’area grigia apposta, potrete togliervi il casco lì. Era già pensato. Avrete una crisi di panico. Non forse. Avrete.

Ma per chi è abituato a lavorare in sala operatoria la vestizione era solo l’aspetto potenziato di quello che già si fa normalmente, con la precauzione in più di vestirsi e svestirsi a specchio, con un collega, per evitare qualsiasi tipo di contatto con i dispositivi ormai contaminati.

Viene da pensare che fosse la narrazione più funzionale. Collima a perfezione con l’immagine dell’eroe che si è cercato di affibbiare ai sanitari. E cosa fa più eroe che un’armatura, pesante ma indispensabile? Un travestimento, per scomparirci dietro? È così che Clark Kent diventa Superman. Un costume. E ci sono i segni sul viso, ideali se vuoi raccontare che sia tutto una battaglia. Ma gli eroi sono sacrificati e sacrificabili, solitari e vincenti, senza dubbi e infallibili. Non c’è una di queste cose che chiunque abbia lavorato in uno dei centri più colpiti dalla pandemia voglia — e possa — associare a sé.

I disagi di personale e ricoverati si incrociano, si sovrappongono, sono simili e diversissimi. C’è una sola costante: l’incertezza. L’incertezza attanaglia tutti, in ogni momento. Per il paziente: morirò, sopravvivrò, tornerò a casa. Per il parente: tornerà a casa, morirà, sopravviverà, lo stanno curando davvero, sono ammalato anche io. Per il medico: saprò curare, saprò fare, cosa uso, come funziona questo dannato virus, come cambia, cosa faccio, morirà, sopravvivrà, tornerà a casa, morirò, sopravvivrò, tornerò a casa. I medici sono abituati al dubbio e alla discussione, ma puoi affidarti a principi cardine e rigorosa organizzazione che ti consentono ampi margini di immaginazione e intuito. In medicina, una pianificazione, rigorosamente attenta, può permetterti una bella botta di culo. Da febbraio, tutti i principi cardine e la rigorosa organizzazione e pianificazione sono saltati.

Per S., medico di Pronto Soccorso ed esperto organizzatore in emergenza, la cosa che ha pesato di più è stata la sensazione di essere disarmato, o meglio: troppo solo. All’inizio c’erano da preparare nuovi medici, allestire tende, aree differenziate, percorsi sporchi, percorsi puliti, farlo in ospedali che non erano creati per quello e farlo in fretta e farlo bene. “Ho visto il mio primario piangere per la stanchezza”, mi dice. Tutti mobilitati: non solo urgentisti, pneumologi, infettivologi, anestesisti, ma anche medici di ogni specialità internistica, finanche ortopedici – e chirurghi generali, come me. Qualcuno aveva esperienza di aree intensive, o subintensive, qualcuno no. Ma bisognava adattarsi, e rapidamente, imparare e imparare sul campo, reinventarsi e ricordare delle basi di fisiologia che per alcuni erano dimenticate. Creare nuovi gruppi, nuovi movimenti. E chiedersi, ancora di più e ancora più forte: sarò in grado?

“Are you lonely yet?”

Durante ognuno dei numerosi corsi e simulazioni sull’utilizzo corretto dei dispositivi di protezione individuale era stato ripetuto come comportarci fuori dall’ospedale. Certo, la mascherina. Ma soprattutto, cosa fare rientrati a casa? Se vivete da soli, bene. Se vivete con qualcuno, se è possibile, allontanatelo o allontanatevi voi. Se vivete con qualcuno e non potete allontanarlo, designate un’area sporca all’ingresso dove lasciare i vestiti e qualsiasi cosa portiate a casa. Dormite in un’altra stanza. Mangiate da soli. Se c’è un bagno solo, disinfettatelo dopo il vostro passaggio con molta candeggina. Molti colleghi sono andati a vivere fuori. Hanno lasciato i figli, le compagne, i compagni, le madri, i padri. Stanze isolate per possibili untori. Isolati nell’isolamento.

Ci sono molti modi in cui potevi far male a chi hai più vicino. Prima di tutto infettandoti, e quindi infettando. Il pensiero di poter passare una patologia potenzialmente mortale a qualcuno col solo respiro è agghiacciante. Non proteggi i tuoi perché proteggi altri. Non proteggi i tuoi perché non ti sei protetto abbastanza tu. È agire sul filo sottile di un potenziale infinito senso di colpa, non troppo per caderci dentro, non troppo poco per dimenticarti che hai una responsabilità. E l’allontanamento, giusto, necessario, è un altro piccolo dolore che infliggi. Allontani chi ti vuole bene, tieni lontano i figli, non abbracci i compagni, non vedi i genitori. Pensi che puoi morire tu. Non sono pochi i colleghi, anche giovanissimi, che hanno fatto testamento. La possibilità di finire in rianimazione era troppo concreta.

“È in questo silenzio dei circuiti che ti sto parlando”.

D. è un trapiantologo del centro dove ho lavorato per tutta la mia specialità, e il mio tutor di tesi. Siamo abituati a dare brutte notizie, a comunicare prognosi infauste, operazioni fallite, inoperabilità. Racconta che un giorno c’è stata una complicazione subito dopo un trapianto di pancreas, il paziente andava riportato in sala operatoria, bisognava avvisare i famigliari. Di solito accorrono, li trovi in sala di attesa appena hai finito. “Ma i parenti non possono venire in ospedale, per le misure preventive. Ho dovuto chiamare la madre al telefono, spiegarle tutto così. Non mi sono mai sentito tanto vicino a qualcuno”.

Erano le telefonate a scandire il corso dei giorni. Prima, le telefonate ai pazienti che aspettavano una visita: annullare, spostare se non urgenti. Far continuare cure altrove se possibile. Fermare le operazioni, anche quelle oncologiche, a meno che aspettare non fosse davvero impossibile. Altre malattie vanno avanti nonostante la pandemia, il mondo non si ferma — noi sì. In un triage costretto l’urgenza è per quelli che non respirano più. Ma se posticipare la revisione di un menisco rotto causa danni funzionali, ma limitati, dire a un paziente che doveva essere operato per un tumore di continuare la chemioterapia, di aspettare ancora, può essere psicologicamente — e anche biologicamente — terribile, sia per il paziente che per il curante. Anche se è la soluzione giusta. Anche se non complicherà la salute. Anche se non puoi fare altro.

“Così mi mandate a morire”: ha detto un paziente a cui a inizio marzo abbiamo dovuto dire di proseguire ancora con due cicli di chemioterapia, perché, in quel momento, non potevamo proprio operarlo. Il mio ospedale, durante la fase montante della pandemia, è stato trasformato al 90% in un ospedale COVID: voleva dire pochi respiratori disponibili per le sale operatorie, poche sale operatorie che non fossero state trasformate in rianimazioni e pochi anestesisti che non stessero intubando e pronando pazienti. Quando la sua ultima risonanza magnetica ha reso sicuro che la malattia non fosse progredita, che sì, potevamo operarlo a breve, ci si è sollevato un macigno dal petto. Ma è un paziente. Uno. Quanti ne abbiamo persi, nel frattempo? A quanti abbiamo dovuto dire “non possiamo fare nient’altro ora”? Quante telefonate, prima?

Poi, le telefonate ai pazienti ricoverati nei reparti isolati. Quello che diceva D. l’abbiamo provato tutti. Non so se di persona ci si senta intimiditi, se la situazione disperata faccia cadere tutti i muri, ma non c’è mai stata così tanta intimità tra medico e parente come durante queste chiamate. Brevi, magari. Dalle informazioni cliniche che cerchi di sintetizzare si aprono finestre mai pensate di dolore, di gioia, di vicinanze e di disinteresse. Sguardi indiscreti sulle vite degli altri, dentro le case, a capire e carpire gli spazi e le persone che ci vivono. Non so se abbia a che fare con il calviniano silenzio dei circuiti, questo modo di chiamarsi solo per sentire che ci stiamo chiamando, per creare ponti e riunire.

Il momento delle telefonate rimane il migliore e il peggiore della giornata, non è mai abbastanza il detto e non è mai abbastanza il non detto, ci vorrebbero occhi, sguardi, mani. Eppure non è mai freddo. È una riconfigurazione continua e plasmatica di quello che pensavamo, che avevamo imparato a dire, a fare, a essere. Quando dobbiamo essere vicini, lontani, seri, famigliari, empatici, autorevoli? Tutto insieme, devi essere, lo devi essere sempre, e qui di più.

Lavoro di mano

Non cambiano solo i rapporti con i parenti. Quello che è cambiato di più, e cambia moltissimo, è quello con il paziente, il tuo con lui e il suo con te.

Io sono una chirurga. Chirurgia, dal greco, cheiros: mano ed ergon: lavoro. Per noi visitare un paziente è toccarlo, sentire la consistenza degli arti, gli edemi, ascoltare i movimenti, tastare l’addome, il torace. “È stranissimo” dice D., un altro collega chirurgo “c’è una barriera tra te e il paziente, improvvisamente devi tenerti a distanza, toccare il meno possibile, trasformare il modo in cui pensi al tuo lavoro”. È straniante per i medici ed è straniante per i pazienti, è sempre il gesto di toccare che presuppone la cura, quanti “ma non mi ha neanche visitato” abbiamo sentito? Sono gesti antichi ma sicuri, come se bastasse il contatto a guarire. Ad-sistere: stare di fianco. In ogni rappresentazione che abbiamo di un medico, il medico tocca — pensate a Medicine, il quadro di Charles Dufresne: due uomini vicinissimi, uno ausculta il torace dell’altro. Sono i gesti del curare. Gesti che hanno dovuto essere, tutti, aboliti. Si è dovuto trovare un altro modo per instaurare un rapporto, già difficile per via dei caschi, loro e nostri, per via dei guanti, due, tre paia, per via delle coperte e delle tute, del respiro che manca e delle parole impossibili. Bisognava trovare il modo di rompere il diaframma che si forma, capire come esserci.

“Ogni medico porta con sé un piccolo cimitero”

I decessi attribuiti a COVID in Italia sono oggi 36.166, quasi la metà solo in Lombardia.
Non è la morte che spaventa il medico. Non è che ci si abitui, alla morte, ma si impara che è componente indispensabile e ineliminabile della vita. Non ci si abitua a perdere i propri pazienti, ma ci si fa i conti. Chi ha esperienza di maxi-emergenze, di medicina dei disastri, sa che può succedere di vedere 50, 100, 200 morti per un singolo incidente, una singola catastrofe naturale.

G. fa l’infermiera pediatrica, ha lavorato per tanti anni con una grande ONG, ha visto la Sierra Leone dell’Ebola, Tahiti, il Sud Sudan sotto la guerra. Era nelle missioni più impegnative nel Mediterraneo, Lesbo, le navi. Ha visto i cadaveri, spesso, e molti. “Non è la stessa cosa – da fuori torni, pensi sempre: ho un luogo sicuro. Qui dove torni? Qui è casa”. Centinaia di discorsi sulla nostra vicinanza, sull’empatia e l’aiuto si disfano quando pensi: casa è qui. Tra questi morti, ci sono i nostri morti. Perché da qualsiasi altro lì saremmo tornate. E da qui? Come si torna a casa da casa? (E per chi, nella sua vita, ha messo quelle cose al centro, è un altro motivo di pensiero, appena ci si ferma un attimo: cosa era diverso? Perchè qui sì e lì no?)

In Storia della medicina dagli antichi greci ai trapianti d’organo S.B. Nuland dice che c’è un momento oltre il quale il medico non può fare più nulla. In quel momento, normalmente, chiami chi è vicino al paziente, perché non sia solo. Ma nel mezzo della pandemia, l’unica persona che poteva esserci eri tu. È una brutta morte: si è soli in una camera d’ospedale. Il minimo che si poteva fare era stare lì. Nient’altro.

Fine

Tra le indicazioni ISS: “Mantenere alta la coesione tra operatori favorisce un clima di accoglienza e di supporto. Gli scambi comunicativi con i colleghi sono importanti per ridurre il senso di isolamento e stimolare il senso di appartenenza a un gruppo. I responsabili delle strutture dovrebbero promuovere la collaborazione tra gli operatori cercando di supportare in particolare coloro che sperimentano attività specialistiche a cui non sono familiari”.
Chi ha avuto tutto questo (io) è stato molto fortunato: un gruppo di colleghi unito, un capo che ha supportato tutto e tutti, una birra nel parcheggio dopo il turno.
Chi ha avuto vicino persone (io) che hanno fatto cadere attenzioni, messaggi, caffè lasciato negli ascensori, canzoni cantate su Whatsapp, cioccolato e tisane recapitati in piena notte, abbonamenti a Spotify, libri e giornali fatti arrivare per posta, e, soprattutto, parole e pazienza, per il silenzio infinito e la rabbia — perché se “my rage is majestic”, come dicono gli Idlewild, a volte diventa troppa, e troppo cattiva, e le urla che vorresti avere diventano una tesissima mancanza di parole – è stato molto fortunato.
Non per tutti è stato così.

Ma nessuno sa cosa e quanto questo lascerà. Ci sarebbero molte, moltissime altre cose da dire — la preoccupazione per i pazienti mandati a casa, la preoccupazione che nessuno li segua, la preoccupazione di lasciarli soli, e poi ci sono quelli che non sanno dove andare, quelli che hanno perso tutta la famiglia, che sono rimasti vedove e orfani, lo sconforto verso le istituzioni, e di più, di più, ci vorrebbero una quantità inesauribile di parole.

Tutto l’indicibile rimane.