Non è mai facile provare ad analizzare un prodotto legato a Michael Jordan. MJ, His Airness, The G.O.A.T., è un personaggio sportivo e molto più che sportivo: è un brand; è il miglior-giocatore-di-tutti-i-tempi; è stato uno dei simboli di un paese nel mondo intero per quasi un decennio; ha portato la lega dove ha giocato ad un altro livello sia sportivo che economico. Sia che voi siate appassionati di basket sia che non lo siate probabilmente non vi è sfuggita l’uscita di una docuserie su Jordan e i Chicago Bulls, The Last Dance. Sono già state pubblicate delle analisi molto valide che considerano tanti aspetti della serie: io personalmente consiglio quella uscita su Ultimo Uomo e due podcast, Passi e Backdoor Podcast. Molto rapidamente: è un prodotto davvero molto bello, rivolto a un pubblico ampio e non solo di appassionati, un’ottima produzione dal punto di vista narrativo e tecnico ma che rischia di cadere spesso nell’agiografia di Jordan e che smette presto di parlare dei Bulls per concentrarsi solo su di lui. In definitiva un prodotto che consiglio ma di cui non bisogna ignorare i punti deboli.
His Airness è ritenuto il-migliore-giocatore-di-tutti-i-tempi. In inglese esiste un acronimo per definire questo status che è G.O.A.T., The Greatest Of All Time, e se vi è capitato di vedere emoticon di caprette nei tweet o negli status di Facebook di giocatori statunitensi è perché usano e abusano del gioco di parole evidente tra l’acronimo e la parola. Nonostante siano passati diciassette anni dal suo ritiro definitivo la sua immagine è ancora fondamentale ed è ancora oggi il giocatore di basket più conosciuto da quel pubblico ampio a cui si rivolge The Last Dance.
Jordan ha vinto sei titoli su sei finali giocate e in ogni occasione è stato premiato come MVP delle Finals, cioè il miglior giocatore delle partite della serie finale. Ma forse non sono solo i grandissimi meriti sportivi il motivo per cui ancora oggi è il giocatore più rappresentativo di sempre per la NBA. Se fosse solo una questione di numeri sportivi, staremmo commettendo tutti una grande ingiustizia a non coinvolgere nel discorso un giocatore come Bill Russell tra gli altri. Il leader dei Boston Celtics degli anni ‘60 può vantare undici titoli vinti da giocatore e due da allenatore, cinque MVP della stagione, uno delle finali. Per quanto sia vero che negli anni ‘60 il basket era molto diverso da quello degli anni ‘80 e ‘90 Russell è il giocatore che ha vinto più titoli NBA di chiunque altro. E prima di Jordan in questa classifica ci sono altri undici giocatori e tra questi il solo Kareem Abdul Jabbar è conosciuto al grande pubblico, seppur molto molto meno di Jordan. Sia Jordan che Russell hanno cambiato il gioco e il modo di giocare ed esistono un basket e una NBA prima e dopo di loro. Peraltro credo che Jordan sarebbe d’accordo.
Ed è questo il motivo per cui nonostante trovi la docuserie un notevole documentario sportivo, credo che uno dei suoi difetti sia sembrare un’agiografia di Jordan. Se mi ha dato questa impressione è perché il racconto si focalizza molto velocemente solo su di lui mentre dovrebbe essere su tutti i Bulls e perché manca il contesto storico.
Uno degli elementi che ha permesso a Jordan di scavalcare di tutti gli altri grandi del gioco nell’immaginario collettivo sono gli anni in cui ha giocato. Negli ultimi minuti dell’ultima puntata della serie, Barack Obama dice che Jordan divenne “ambasciatore degli Stati Uniti d’America e della cultura americana nel mondo”. Questo Bill Russell non lo fu mai, Lebron James non lo è e nessun altro lo è mai stato. Per capire come lo diventò bisogna fare uno zoom indietro e guardare il personaggio da lontano, il basket da lontano e in che mondo la “meteora Micheal Jordan si è schiantata”, come direbbe Federico Buffa.
Quando Obama dice che Jordan divenne “uno straordinario ambasciatore” fa riferimento, consapevolmente o meno, al concetto di soft power. Il concetto è stato teorizzato da Joseph Nye della John F. Kennedy School of Government in un articolo del 1990 e poi sviluppato in una serie di libri ma si può riassumere così: esiste un modo per dominare le relazioni internazionali che non sia l’impiego della forza, la coercizione o la corruzione. Tutto ciò che rende benevolo un paese agli occhi di un altro e dell’opinione pubblica internazionale è soft power. Nell’articolo Nye afferma che “uno stato può raggiungere gli obiettivi che si prefigge in politica estera perché gli altri stati vogliono seguirlo o hanno accettato una situazione che produce tali effetti” e più avanti aggiunge “[…] un paese che si trova a controllare i più diffusi canali comunicazione ha più opportunità di trasmettere i propri messaggi e di influenzare le preferenze degli altri”. Mi pare evidente che elementi culturali come la musica, il cinema e lo sport sono pienamente parte di questo potere dolce. Ovviamente non sono gli unici necessari e certamente non basta a imporre il proprio potere. Ma nel caso di Jordan e altri “elementi culturali” americani della fine degli anni ’80 e degli anni ’90 divennero innegabilmente parte del soft power americano che in quegli anni si diffuse in tutto il mondo. Qualcuno ha detto Rocky e Rambo o Mamma, ho perso l’aereo?
Jordan entrò nell’NBA quando tutto questo era all’inizio. Pochi mesi dopo il suo draft, Ronald Reagan fu rieletto presidente con uno dei più celebri spot elettorali di tutte le presidenziali: It’s morning again in America. Il messaggio è chiaro: prima era notte e stavamo male, ma da quando sono al governo io è tornato il mattino, cioè la felicità e la ricchezza. Reagan era stato eletto la prima volta nel 1980; il suo predecessore era il democratico Jimmy Carter che in un celebre discorso, ricordato come il discorso sul malessere, aveva riassunto gli elementi di difficoltà che gli Stati Uniti avevano attraversato nel decennio precedente. Gli anni ’70 erano infatti stati anni complicati per gli USA e forse il punto più basso del loro soft power. L’appoggio a regimi come quello di Pinochet, la sconfitta in Vietnam, la crisi degli ostaggi a Teheran mostravano una difficoltà statunitense nella gestione delle relazioni internazionali. E alle difficoltà di politica estera vi erano quelle di politica interna: lo scandalo Watergate, i movimenti controculturali e per i diritti civili molto forti e riconosciuti all’estero. Carter aveva tenuto il suo discorso mentre nel paese era in corso uno sciopero degli autotrasportatori causato da una pesante crisi energetica che aveva portato alla chiusura della grande maggioranza dei distributori e a un enorme rialzo del prezzo della benzina. Lo sciopero e la crisi energetica erano giunti a dare una sorta di colpo di grazia al soft power statunitense nei ‘70. Alla fine di quel decennio la loro reputazione internazionale era molto bassa ed erano visti come un paese potente, violento, che compiva abusi all’estero e in patria ma anche in declino.
Reagan arrivò al potere grazie al supporto dell’ala più estrema del partito repubblicano e portò avanti un’idea di America forse non molto lontana da quella di Trump. Ma quell’idea fece presa sulla popolazione al punto da garantire al Partito Repubblicano tre mandati consecutivi alla Casa Bianca, due con lui e uno con il suo vice George H. Bush diventato presidente nel 1988. Trovo molto interessante che nelle elezioni del 1980, 1984 e 1988 i Repubblicani abbiano ottenuto il voto popolare mentre dal 1988 a oggi lo abbiano vinto solo nel 2004 nonostante abbiano espresso il presidente per tre mandati. Non è il caso di approfondire questo aspetto ma mi pare segnale indicativo di come il messaggio reaganiano fece presa sulla popolazione statunitense.
Gli Stati Uniti degli anni ’80 erano un paese che voleva riprendersi la scena mondiale e che aveva bisogno di elementi culturali popular per riconquistare l’opinione pubblica internazionale. Qualcuno ha detto ancora Rocky e Rambo? Il presidente Reagan seppe usare il cinema a proprio vantaggio, ma non furono solo i film a permettere una nuova ascesa del soft power statunitense. Anche Michael Jordan ebbe un ruolo.
Per cominciare a capire come Jordan ha raggiunto quel ruolo bisogna inquadrare quello che ha avuto per una lega, la NBA, che prima del suo arrivo stava faticando ad affermarsi, per quanto possa sembrare strano oggi. La ripresa della lega era iniziata con Larry Bird e Magic Johnson ma è con Jordan che consolida il suo appeal e fa un salto a livello mondiale. Jordan entra nella lega nel 1984 quando la NBA sta uscendo da un periodo complicato: problemi di droga, presenza di giocatori in qualche modo devianti, soprattutto per gli afroamericani, risse e più in generale un clima difficile avevano portato addirittura alla non trasmissione in diretta di alcune Finals. Lo stesso Jordan ha più volte raccontato che quando appena arrivato nei Bulls alcuni dei suoi compagni si ritrovavano nelle loro camere durante le trasferte e usavano diversi tipi di droghe. Lui ha raccontato di aver rifiutato di stare in quel circolo perché riteneva che avrebbe influito sulle sue prestazioni. Uscire da questa situazione era fondamentale per poter recuperare pubblico e in particolare recuperare il pubblico bianco che aveva più capacità di spesa ma era in parte respinto dalla presenza di giocatori che rivendicavano la propria blackness e la propria diversità. Richiamavano il conflitto per la rivendicazione dei diritti civili e mettevano a disagio, a differenza di oggi, il pubblico bianco.
Magic e Bird erano due giocatori non conflittuali verso il sistema e la lega aveva iniziato il recupero basandosi sulla loro rivalità sportiva, che non rappresentava il conflitto tra bianchi e neri. Jordan arrivò perfettamente a tempo per subentrare ai due e rilanciare la lega verso una fama internazionale mai toccata. Certamente anche lo sviluppo delle tecnologie, quindi VHS e una maggiore facilità di trasmissione delle immagini televisive, ebbe un ruolo importante. Celebri sono i racconti di giornalisti italiani come Flavio Tranquillo e Federico Buffa su quanto fosse difficile seguire le partite NBA in Italia negli anni ’80, cosa che a partire dall’epoca di Jordan iniziò a cambiare.
Ma perché Jordan riuscì a diventare la stella indiscussa bisogna anche considerare altri fattori. Era un giovane afroamericano molto lontano dall’immagine di ragazzo del ghetto e che sapeva stare al suo posto, mentre altri giocatori del tempo come Isaiah Thomas erano ancora giocatori legati alla “tradizione” anni ’70: potremmo dire brutti, sporchi e cattivi. Anche se Thomas e i suoi Detroit Pistons non erano solo quello, i due volte campioni nel ’89 e ne ’90 avevano la fama dei bad boys e non era più un’immagine spendibile. Quando iniziò a volare sui campi, Jordan, che era ed è ossessionato dalla vittoria, riuscì a farsi amare da un pubblico ampio, al di fuori di Chicago e dei soli appassionati di basket.
In un momento storico come gli anni ’80 e ’90, nel quale la conflittualità era percepita come problematica, e vista la dimensione che il suo personaggio aveva velocemente raggiunto, Jordan scelse di non esprimersi su diverse questioni legate alle lotte e alle rivendicazioni degli afroamericani. Non prese posizione ad esempio sul pestaggio da parte di alcuni poliziotti di Los Angeles a Rodney King, e la sua famosa frase «Republicans buy sneakers too» è legata alla sua scelta di non appoggiare il candidato afroamericano e democratico Harvey Gantt che si opponeva a Jesse Helms, un repubblicano decisamente di destra, nella stessa North Carolina in Jordan era cresciuto e aveva giocato all’università, e dove quindi un suo endorsement avrebbe avuto un peso notevole.
Questo è uno degli aspetti che permette di capire che anni fossero gli anni ’90. Jordan, come tutte le altri grandi stelle afroamericane dell’epoca, non prese parola sul pestaggio di Rodney King come su altre questioni politiche non tanto o non soltanto per le proprie convinzioni ma anche perché, nella ricostruzione della lega che prevedeva anche la necessità di rimanere falsamente super partes era ritenuto un po’ sconveniente che lo facessero. Craig Hodges, un suo compagno di squadra, criticò lui e le altre star nere per non aver preso posizione sulla rivolta di Los Angeles del 1992. L’anno successivo Hodges, a soli 32 anni e con buoni risultati sportivi per un giocatore di secondo piano, non trovò un contratto nella NBA e finì a giocare per la Clear Cantù in Italia. La fine della carriera NBA di Hodges ci dà il metro del clima degli anni ’90 su queste questioni, per cui non trovo né sorprendente né sospetto che Jordan, che si rifiutò di prendere parola allora, lo abbia fatto invece recentemente per l’omicidio di Floyd. Oggi i giocatori usano diversamente la propria immagine pubblica, mentre allora gli sponsor (e probabilmente stessa NBA, vista la fine di Hodges), temevano che una presa di posizione netta e chiara a sostegno di King e dei riots, avrebbe portato a una perdita di mercato spaventando il pubblico bianco che si era appena riavvicinato. In quegli anni, dunque, gli sportivi non si esponevano come hanno fatto in giorni più recenti Lebron James e altri e non solo per l’omicidio di George Floyd. Non voglio giustificare Jordan ma il contesto mi sembra importante: Jordan si mostrò un giocatore in grado di rimanere al suo posto e questo è un elemento importante per capire perché ebbe la possibilità di arrivare dove è arrivato.
Ad agosto 2020 la NBA è stata scossa dallo sciopero dei giocatori che ha portato alla temporanea sospensione dei playoff. Lo sciopero è iniziato con il rifiuto dei Milwaukee Bucks di scendere in campo dopo che la polizia ha sparato sette volte nella schiena al ventinovenne afroamericano Jacob Blake. L’episodio è avvenuto a 40 chilometri da Milwaukee e i giocatori si sono sentiti coinvolti. Per quanto i giocatori NBA siano dei privilegiati, il loro essere neri non li chiama fuori dalle violenze poliziesche. Tristemente famoso è l’episodio accaduto a Thabo Sefolosha a New York, ma non è certo l’unico. Anche se per noi europei non è facile capire il ruolo che ha lo sport nella storia delle rivendicazioni politiche e sociali negli USA, in questo caso non si sta parlando di un “semplice” sostegno a una causa: i giocatori neri sanno che quella cosa potrebbe succedere anche a loro come a qualunque altr* afroamerican*.
Lo sciopero è stato una reazione immediata, non un’azione organizzata; quando tutti i giocatori NBA, che stavano giocando all’interno di una “bolla” e potevano quindi radunarsi, si sono confrontati erano divisi: una parte di loro avrebbe voluto proprio chiudere la stagione, un’altra avrebbe voluto solo sospendere i playoff temporaneamente. A giocare un ruolo determinante nel far pendere la decisione verso la sospensione temporanea pare che sia stato Michael Jordan, che oggi è anche proprietario degli Charlotte Hornets, una franchigia NBA. Gli Hornets non erano coinvolti nei playoff, quindi Jordan non rischiava di essere direttamente danneggiato dalla chiusura della stagione. Lo sarebbe stato però in quanto parte di una lega che avrebbe perso centinaia di milioni di dollari. Eppure sicuramente lui non voleva che i giocatori non scioperassero. Questa forse è la sua vera natura, oggi quanto meno: è un uomo nero, sa che cosa questo significhi ma politicamente si muove con una cautela che gli serve per comunque continuare a guardare agli affari e ai risultati. Oggi si esprime su certi argomenti perché può farlo senza troppi rischi, negli anni ‘90 ha valutato che quei rischi fossero troppo alti.
Ta-Nehisi Coates, nel libro sulla presidenza Obama Otto anni al potere, sostiene che per diventare presidente Obama dovette farsi accettare dai bianchi, affermandosi come afroamericano ma soprattutto come afroamericano che dimostra di non odiare i bianchi. Penso che questa analisi possa andare bene anche per Jordan, pur con delle differenze ovvie: MJ, per poter rimanere all’interno del mondo che si stava costruendo attorno a lui, scelse di non essere percepito come divisivo ma usare la sua immagine implicita di afroamericano e esplicitamente di afroamericano “amico dei bianchi” per poter arrivare al pubblico più ampio possibile. Jordan divenne un’icona culturale con Spike Lee che dirigeva gli spot delle sue scarpe, e così il regista orgogliosamente nero coprì un fianco dell’immagine dello sportivo che cercava di attirare tutto il pubblico possibile indipendentemente dal gruppo etnico di appartenenza. Non che dietro questa copertura ci sia stata una premeditazione (Spike Lee è notoriamente appassionato di basket), ma il risultato fu quello ugualmente.
C’è un’immagine che ho visto più volte e che appare anche in The Last Dance: Jordan che cammina per le strade di Barcellona ai tempi delle Olimpiadi del 1992, proprio sotto una gigantografia di se stesso. Barcellona ’92 è l’anno del Dream Team: gli Stati Uniti vollero dare una dimostrazione di forza sportiva, ma metaforicamente di forza in generale, e per quanto riguarda il basket inviarono una squadra con tutte le più grandi stelle della NBA, che di solito non sono così propense a partecipare alle Olimpiadi, un torneo che non reputano competitivo. Di quella squadra facevano parte Bird, Magic, Malone, Stockton, Drexler, Robinson, forse i più forti della lega in quell’anno ad esclusione di Thomas, e Jordan ne era il leader. Quello forse è il momento in cui Jordan smette di essere una super stella sportiva e diventa ambasciatore degli Stati Uniti e della loro cultura nel mondo.
E su questo punto si fondono le due cose: la capacità di Jordan, per meriti sportivi indiscussi, di assurgere a super stella e l’evoluzione del Jordan icona culturale in ambasciatore e quindi integrata nel soft power statunitense.
Gli USA, a metà della carriera di Jordan e proprio quando lui iniziò a vincere i titoli NBA, erano i vincitori della contesa storica contro l’Unione Sovietica e volevano affermare la propria superiorità non solo a livello politico ma presso l’opinione pubblica, cioè volevano consolidare il proprio soft power. Per farlo usarono diversi metodi e diverse personalità, tra cui Michael Jordan che divenne uno dei simboli più diffusi del paese. In The Last Dance si vedono Jordan e i Bulls andare a giocare una partita di esibizione a Parigi nel 1998: in quella occasione il suo status è talmente sopra quello di tutti gli altri che si vede chiaramente come la maggioranza degli spettatori parigini si trovi lì per lui. Jordan affermava allo stesso tempo la forza degli Stati Uniti anche grazie al suo ruolo di giocatore immagine della Nike; era un’immagine internazionale e seppe amministrarsi al meglio, diventando più grande di ogni singolo aspetto che lo componeva: era più che il volto della Nike, più che un giocatore di basket, più che un giocatore statunitense. Si può comprendere appieno la figura di Jordan soltanto inserendo anche il contesto storico, perché in quegli anni gli Stati Uniti avevano bisogno di volti spendibili, che non richiamassero gli afroamericani militanti o devianti degli anni ’70 e ’80, che sapessero come e se esporsi, che potessero rappresentare il volto che gli Stati Uniti stessi volevano dare di sé al mondo: giovani, belli, multirazziali e cool. Si nascondevano e si volevano rimuovere i problemi che ancora restavano ma che venivano attenuati da una maggiore diffusione del benessere: era un’immagine costruita come era costruita quella di Jordan. Il messaggio era: “Abbiamo vinto la Guerra Fredda, abbiamo sconfitto l’impero del male, da oggi It’s morning again in the world, because of us”. E Jordan lo impersonava alla perfezione.
Forse anche il suo primo ritiro si può inquadrare nella crisi di un uomo schiacciato dalla pressione dei media e dell’opinione pubblica dovuta proprio a questo suo ruolo di ambasciatore, una pressione che nessun altro giocatore ha dovuto affrontare. Probabilmente è per tutti questi motivi che quando si discute su chi sia la Capra lui sembra sempre essere un gradino sopra agli altri: nessuno oltre a lui riuscì ad ascendere a quel livello. Per un misto di eccezionalità sportiva e di contesto storico.