Tra Wall Street e Broadway c’è un camposanto molto piccolo, molto vecchio, iscritto allo US National Register of Historic Places e incastonato nel cuore del quartiere finanziario più trafficato del mondo: è il cimitero della Trinity Church, lì dal 1697. È il più antico ancora presente e in uso sull’isola di Manhattan. Tra i suoi ospiti c’è parte della famiglia Astor, numerosi esponenti di rilievo della vita sociale e politica newyorkese, ed Eliza Schuyler Hamilton, al cui fianco riposa il marito Alexander. Poco lontano da lì il nome Hamilton non è scritto su pietra ma su tabelloni pubblicitari per quello che è stato e continua a essere l’indiscusso fenomeno del teatro musicale dell’ultimo decennio, da quest’anno accessibile anche in Italia in streaming.
Hamilton: An American Musical è comparso sulla scena nel 2015 da un’idea di Lin-Manuel Miranda che ne ha curato libretto, musica e testi. L’anno dopo ha fatto la storia del genere con il maggior numero di nomination ai Tony Awards (sedici, portandone undici a casa), un Pulitzer Drama e una lista di premi che supera il numero di canzoni presenti all’interno del musical stesso (e quelle sono già quarantasei).
Su carta è la storia del protagonista eponimo dell’opera, Alexander Hamilton: padre fondatore degli Stati Uniti d’America, braccio destro del Generale George Washington e primo Segretario del Tesoro della nuova nazione. La vita di Hamilton scorre sul palco in parallelo con la rivoluzione americana al ritmo di hip-hop, jazz e R&B, raccontata in prima persona e attraverso la voce di personaggi fondamentali alla narrazione.
La narrazione del proprio destino è tra i temi principali ripetutamente affrontati, di pari passo con il concetto di paternità (effettiva e simbolica), di rivendicazione della propria indipendenza (individuale e collettiva) e della vittoria sovversiva dell’underdog (quando gli USA potevano ancora considerarsi tali). Alexander Hamilton e i protagonisti maschili del musical lamentano a più riprese il proprio desiderio di lasciare una traccia nel mondo, un ricordo per i posteri, una legacy da tramandare ai propri figli con orgoglio; lasciar narrare la propria storia sembra nel loro caso quasi più importante che farla.
Il desiderio di diventare oggetto narrativo altrui, di passare di generazione in generazione arricchendo la propria immagine con ogni parola spesa, dà la possibilità a chi in effetti se ne incarica come portavoce di ricoprire un ruolo essenziale. Ed è qui, in questo punto, che l’ago del protagonismo nella storia al di là dello spettacolo si sposta: non più su Alexander Hamilton, ma su chi racconterà di lui e delle sue imprese negli anni dopo la sua morte.
Eliza Schuyler entra in scena con le sorelle Angelica e Peggy. La loro comparsa ha le sonorità R&B dell’empowerment femminile: sono annunciate dalle voci maschili come un trimulierato appetibile per la scalata sociale del protagonista, eppure bastano pochi secondi e questa nozione è smontata sotto gli occhi del pubblico. Escono da quel ruolo imposto e affermano la propria individualità, il proprio valore e la propria rivendicazione di uguaglianza in un sistema così profondamente maschile; il periodo storico le relega a un particolare ruolo sociale da osservatrici ma l’intenzione di essere più di questo è la loro rivoluzione. Nelle parole di Angelica:
So men say that I’m intense or I’m insane.
You want a revolution? I want a revelation
So listen to my declaration:
‘We hold these truths to be self-evident
That all men are created equal’
And when I meet Thomas Jefferson,
I’m ‘a compel him to include women in the sequel!
Eliza ci è mostrata mentre entra nella vita di Alexander definendosi “helpless” in un accorato canto del suo innamoramento, ma questo non è che l’inizio della sua evoluzione personale. Seguiamo il suo percorso mentre accompagna Alexander nella vita e nella politica da moglie devota, partecipando da spettatori alla sua preoccupazione mentre aspetta il ritorno dopo la battaglia, alla sua gioia nella maternità e alla sua umiliazione quando il marito ammette pubblicamente una relazione extraconiugale. Eliza diverge dalle intenzioni degli altri personaggi e usa quel momento esatto per rivendicare il proprio diritto di scelta nell’essere o meno il soggetto di una narrativa esterna, scritta da altri a nome suo. Brucia le lettere del marito, si tira fuori dalla speculazione pubblica per vivere il proprio dolore in privato. Quel che Eliza ci dice in scena è chiaro: “questo dolore non riguarda nessun altro che me”. In un atto deliberato toglie effettivamente ai posteri la possibilità di sapere come ha vissuto quel tradimento. Questa scelta permette di superare il vuoto della mancanza di fonti dirette su come il momento personale messo in scena è stato effettivamente vissuto, ma è anche un chiaro messaggio di autodeterminazione che permette a Eliza di distinguersi.
In un’opera teatrale in cui la narrazione è un tema fondamentale, il personaggio romanzato di Eliza viene introdotto in una posizione che inizialmente sembra essere ancillare; eppure lei emerge come un’alleata fondamentale anticipando non solo il ruolo di testimone e futura divulgatrice, ma mostrandosi anche come l’unica in grado di esercitare un controllo su come la nozione di sé verrà percepita nel tempo.
Eliza Schuyler naque ad Albany, New York, nel 1757 da una famiglia particolarmente ben inserita nel mondo politico, e la sua fu una giovinezza agiata spesa a coltivare la sua istruzione. Sposò Alexander Hamilton nel 1780 e per i ventiquattro anni del loro matrimonio si dedicò ad intrattenere una ricca rete di relazioni sociali, tessendo in particolare un’amicizia devota con quella che diventerà la prima First Lady americana: Martha Washington.
Durante la carriera politica di Alexander, Eliza gli restò affianco redigendo documenti, scrivendo sotto dettatura e comportandosi da assistente, mentre gestiva una famiglia numerosa quanto numerosi furono i traslochi che affrontarono seguendo Hamilton nel suo percorso d’ascesa a diventare Segretario del Tesoro per la prima amministrazione americana. Durante la sua sesta gravidanza, lo scandalo che scoppiò in seguito alla relazione extraconiugale del marito con Maria Reynolds — dettagliato nel Reynolds Pamphlet da Hamilton stesso, in un tentativo di anticipare e neutralizzare un atto diffamatorio da parte dei suoi nemici politici — la portò ad un temporaneo allontanamento da Alexander, ma i due tornarono presto ad essere inseparabili e affiatati fino alla morte di lui nel 1804.
Separare la vita di Eliza dal suo matrimonio è un atto complesso quanto fondamentale per renderle giustizia. In linea con le aspettative dell’epoca rimase un passo dietro al marito finché lui fu in vita, ma per i cinquant’anni in cui gli sopravvisse portò avanti numerose battaglie per preservare la sua reputazione.
Gli ultimi minuti del musical sono dedicati a lei, a questi traguardi, alla sua figura che di colpo smette di essere un passo indietro rispetto al marito e passa letteralmente in primo piano. Nella parte finale di Who lives, who dies, who tells the story si distanzia lasciando tutti dietro sullo sfondo e afferma esplicitamente il suo desiderio di reinserirsi proprio in quella narrazione che un’ora prima aveva rigettato, di rimettersi in movimento, di andare oltre ciò che è stato compiuto da Alexander e in qualche modo superarlo con i suoi propri mezzi.
I put myself back in the narrative
I stop wasting time on tears
I live another fifty years
It’s not enough
Eliza canta di ciò per cui si è battuta per il resto della sua esistenza, raccontando lei stessa il proprio futuro senza affidarsi ad altre voci.
Eliza si consacrò alla raccolta delle corrispondenze e scritti privati di Alexander, a ripetuti tentativi di pubblicarne una biografia dettagliata, al riconoscimento della paternità di Hamilton del famoso discorso d’addio di George Washington al momento di abbandonare la sua carica di presidente e, paradossalmente, alla raccolta fondi per erigere il Washington Monument in onore di quest’ultimo.
Nel climax di questa conclusione annuncia al pubblico il suo grande orgoglio, il suo impegno più lungo: nel 1798 entrò a far parte della Society for the Relief of Poor Widows with Small Children e ne restò in carica a vario titolo fino all’età di novantadue anni. Attraverso questo impegno fondò insieme ad altre donne il primo orfanotrofio privato degli Stati Uniti — l’Orphan Asylum Society — tuttora in funzione sotto il nome di Graham Windham. Nei quarantadue anni dedicati a questa causa il suo operato portò aiuto a circa settecento orfani, lasciando dietro di sé un’eredità che ancora perdura.
In Hamilton: An American Musical, Eliza Schuyler è la persona che conclude il racconto: nell’ultimo secondo i riflettori illuminano lei lasciando nell’ombra il resto del cast, incluso il protagonista. Eliza è la padrona dell’ultima canzone, il suo ultimo atto è un’espressione di stupore dagli occhi sgranati, come se stesse guardando qualcosa che è al di là di ogni sguardo.
Eliza Schuyler Hamilton sul palco guarda al futuro e racconta il passato, totalmente padrona del suo presente in scena. Occupa uno spazio decisivo, non meno importante di quello occupato da Alexander, e nei suoi versi finali chiede “Quando il mio tempo sarà finito, racconteranno la tua storia?‘’. La verità è che la storia di uno è inscindibile da quella dell’altra. Allo spettatore è lasciata quindi la possibilità — e in qualche modo la responsabilità — di accettare che il titolo di quest’opera ideata come un tributo di suoni, colori e figure in movimento ad Hamilton sia ambivalente, non esclusivo. Un riferimento non a una ma a entrambe le persone che fecero di questo nome un’eredità storica.