Alla ricerca della verità senza perdersi le storie: viaggio nel reportage polacco

La categoria delle fake news pone nuove domande su cosa voglia dire scrivere narrativa. I lettori si sentono sempre più ingannati, male informati o tratti in inganno, cominciano ad avere verso la scrittura di finzione una forma di snervata idiosincrasia. E la reazione a questa stanchezza verso la narrativa è nel grande successo della non-fiction. […] La narrativa ha perso la fiducia dei lettori da quando la menzogna è diventata un’arma di distruzione di massa moderna, per quanto rimanga strumento primitivo. Sempre più spesso mi sento chiedere con grande incredulità: “Ma quello che ha scritto è reale?” e ogni volta ho l’impressione che porti con sé i segni della fine della letteratura.

Queste parole vengono dal discorso tenuto da Olga Tokarczuk all’Accademia di Svezia in seguito all’ottenimento del Premio Nobel per la letteratura. Per la scrittrice polacca, sembra prefigurarsi il rischio di un mondo senza narrativa, e dunque senza la mitopoiesi del racconto, schiacciato da un ancestrale bisogno di verità, appagato solo da quella letteratura che racconta fatti reali e che raccogliamo sotto l’ampia definizione di non-fiction.
Nella visione di Olga Tokarczuk hanno probabilmente un peso particolare la lunga tradizione e il successo straordinario che nella sua natia Polonia ha un genere di non-fiction molto peculiare: il reportage letterario. Basta fare un giro per una qualsiasi libreria di Cracovia o di Varsavia per notare interi scaffali dedicati a quella che in lingua locale si chiama literatura faktu, ovvero letteratura dei fatti, letteratura concreta. Esistono gruppi di lettura, scuole, festival, persino case editrici specializzate che nascono e hanno fortuna attorno a un concetto semplice: raccontare storie vere.

È il frutto maturo di una tradizione lunga decenni e che ha radici complesse, ma di certo rispondenti all’esigenza del pubblico di leggere di fatti realmente accaduti. Non è del tutto vero, tuttavia, che questo bisogno di verità sia una minaccia alla narrativa. La grande tradizione del reportage polacco passa per nomi, vocazioni e stili diversissimi tra loro e ha contatti molto concreti con il gusto narrativo del raccontare. Se la brama di verità può essere una minaccia alla scrittura di narrativa, come teme Olga Tokarczuk, questa minaccia non viene dall’approccio polacco al reportage. Vediamo perché tracciandone un po’ il percorso e mostrando i suoi protagonisti più interessanti.

Le pietre miliari – Ryszard Kapuściński e Hanna Krall

L’immagine più nitida che viene in mente alle parole ‘reportage polacco’ è certamente quella di un uomo pallido, un po’ stempiato, con le maniche della camicia arrotolate sotto i gomiti e un taccuino in mano. Ryszard Kapuściński è uno degli scrittori polacchi più famosi al mondo e questa fama se l’è costruita con fatica, girando il mondo e annotando le sue impressioni di viaggio all’interno di quei libri che lo hanno reso famoso, e che oggi in italiano leggiamo grazie alle edizioni Feltrinelli e al volume dei Meridiani che Mondadori gli ha dedicato. Come racconta lui stesso all’interno di In viaggio con Erodoto (Feltrinelli, 2005, trad. di Vera Verdiani), Kapuściński ha lavorato per decenni come inviato dell’agenzia di stampa polacca PAP, per la quale ha riportato notizie da mezzo mondo, vivendo e raccontando rivoluzioni, guerre civili, lotte per l’indipendenza, ma anche stralci di vita normale da posti lontanissimi dalla Polonia. Racconta che l’essere cresciuto in un mondo ossessionato dai confini, lo ha reso naturalmente affascinato dall’idea di superarli per andare a vedere cosa ci fosse al di là. La biografia di Kapuściński mostra la genuinità di questo asserto di fondo: da reporter ha sempre cercato i conflitti e le contraddizioni dove esplodevano, e lo ha fatto con lanci di agenzia inviati per telegrafo da minute stanze d’albergo. Si riduce a questo il suo contributo? Naturalmente no. Nei libri che ha scritto, Ryszard Kapuściński ha dimostrato prima di tutto di essere un grande narratore. Diciamolo pure, un grande scrittore. Nelle relazioni dei suoi viaggi, che arrivino dalla guerra di liberazione dell’Angola (Prima di noi, Feltrinelli, 2008, trad. di Vera Verdiani), dalle repubbliche più periferiche dell’ex-URSS (Imperium, Feltrinelli, 2013, trad. di Vera Verdiani) o dall’Iran in ebollizione della rivoluzione khomeinista (Shah-in-shah, Feltrinelli, 2001, trad. di Vera Verdiani), Kapuściński non si ferma al resoconto dei fatti né alla scolastica applicazione dei principi giornalistici. Lui racconta da dentro, riempiendo le sue pagine di dettagli apparentemente insignificanti rispetto alle vicende narrate, ma essenziali ai fini del racconto. Come fa la letteratura. È letteratura Carlotta, la guerrigliera angolana che muore in combattimento in Ancora un giorno, e lo è la pagina dedicata alla produzione del cognac armeno ai piedi dell’Ararat in Imperium. Il distinguo tra fiction e non-fiction in questi casi fa un grande torto ai lettori, togliendo Kapuściński dal campo di Flaubert, Dostoevskij, Joyce o Tokarczuk per metterlo in quello avverso.

Hanna Krall ha un nome e un volto meno noti e iconici rispetto a chi l’ha appena preceduta, ma gli studiosi e appassionati di storia dell’Olocausto potrebbero comunque averla trovata sulla propria strada, visto che questa scrittrice varsaviana ha dedicato al tema la gran parte delle sue energie creative. Figlia di ebrei assimilati del ceto medio di Varsavia, Hanna Krall ha vissuto l’occupazione nazista grazie a lunghi anni passati in clandestinità che l’hanno salvata da morte certa. Dopo la guerra, ha studiato da giornalista e poi ha cominciato a scrivere per non fermarsi più. Rispetto a Kapuściński, che di Polonia ha parlato solo marginalmente, Hanna Krall ha scritto quasi solo del suo Paese e in particolare delle sorti della comunità ebraica polacca spazzata via dal progetto criminale del Terzo Reich. Il titolo più famoso di Krall porta il titolo di Arrivare prima del signore Iddio (Giuntina, 2010, trad. di Ludmila Ryba e Janina Pastrello) ed è un libro-intervista con Marek Edelman, uno dei condottieri della eroica quanto tragica insurrezione del ghetto di Varsavia della primavera del ‘43. In questo libro Hanna Krall compie il più difficile dei lavori per chi scrive reportage: si nasconde. Lascia parlare il suo protagonista senza interromperlo, apre lo spazio senza entrarci, e senza togliere spazio alla testimonianza. A volte ci discute, ma senza mai rubargli la scena. La lingua è diversa, ma la convinzione di fondo è la stessa di Kapuściński: raccontare è un’esperienza creativa completa, diversa dal riportare i soli fatti.

La generazione di mezzo – Jagielski, Tochman e Hugo-Bader

Sotto molti aspetti, Wojciech Jagielski, Wojciech Tochman e Jacek Hugo-Bader sono i veri eredi della tradizione di Kapuściński, anche se in modi molto diversi tra loro.

Jagielski dal suo maestro ideale ha ereditato le camicie e la predilezione per i teatri di guerra. Nei suoi reportage taccuino in mano, ha raccontato soprattutto l’Asia e l’Africa. Il suo libro più famoso è Vagabondi notturni (Nottetempo, 2010, trad. di Marzena Borejczuk), che racconta da dentro alcuni episodi della guerra civile ugandese, una delle più lunghe e sanguinose dell’Africa post-coloniale. Come Kapuściński, Jagielski non si limita a telegrafare i fatti, ma li racconta in una cornice più ambiziosa e profonda, che cerca di restituire l’umanità (e la sua assenza) nel contesto che racconta. Non si legge Jagielski per avere un quadro dettagliato della guerra civile ugandese con vincitori e vinti, cambiamenti geopolitici e prospettive internazionali. Lo si legge per guardare una guerra assurda con gli occhi di chi ha saputo viverci dentro e raccontarla, facendone una narrazione che sappia andare oltre la cronaca. Jagielski fa anche un’operazione sfacciata di pura narratività. Smembra i suoi interlocutori e li ricompone, unisce sotto un solo volto più vicende. Di fronte a ciò, qualcuno ha storto, e storcerà, il naso, ma Jagielski lo sa bene e lo insegna: la verità profonda di una testimonianza vive nel modo in cui la sai raccontare più che nella sua mera comunicazione.

Diverso, radicalmente, il caso di Wojciech Tochman, autore di due libri di reportage diventati classici del genere e arrivati in Italia entrambi grazie alle edizioni Keller: Come se mangiassi pietre (2015, trad. di Marzena Borejczuk) dedicato alle guerre in Jugoslavia e Oggi disegneremo la morte (2010, trad. di Marzena Borejczuk) che invece tratta il tema del genocidio ruandese. Tochman raccoglie l’eredità dei suoi maestri e la porta persino oltre, dentro avvenimenti così vicini a noi da non godere di contorni comodi per contestualizzarli. Il lavoro di Tochman arriva a posteriori, con una missione da reporter e archeologo, che cerca nel presente le tracce di un passato recente e dalle ferite ancora calde, ma taciuto e camuffato. Per questo Tochman non può fare come Jagielski, non se la sente di ricombinare le testimonianze per dare loro più forza. L’atrocità che racconta lui deve restare nei volti e nelle parole di chi l’ha vissuta, subita o compiuta. In un modo simile ad Hanna Krall, Tochman si fa invisibile, porta avanti i suoi personaggi, rendendoli narratori e testimoni. Il ruolo del reporter, dietro le quinte, è quello di sistemare le luci e i tempi per un racconto che ad altri tocca fare.

Più invadente invece lo stile di Jacek Hugo-Bader, in Italia con Keller che ha pubblicato per il pubblico nostrano due sue raccolte di reportage: I diari della Kolyma (2018, trad. di Marco Vanchetti) e Febbre bianca (2016, Marzena Borejczuk), entrambi derivati dai viaggi dell’autore dentro e attorno all’ex-URSS. Hugo-Bader è nato nel 1957 e quindi ha vissuto i suoi primi trent’anni nella cornice della Polonia socialista. Si tratta di un elemento che ha segnato nel profondo la sua vena di ricercatore e narratore visto che si è dedicato principalmente a raccontare e tentare di capire l’anima del grande e scomodo fratello orientale. I reportage di Hugo-Bader sono interessanti nonostante non siano, o forse proprio perché non sono, osservazioni imparziali. Conversando con Michail Kalašnikov, l’inventore dell’omonimo fucile d’assalto, o camminando per le strade deserte di una delle città private di Gazprom, Hugo-Bader si scontra con una realtà che per lui rimane incomprensibile ed estranea. La scoperta dell’homo sovieticus, e delle sue derivazioni nella Russia contemporanea, è una ricerca sfiancante, e destinata al fallimento, ma che l’autore porta avanti con ostinazione e che ogni volta porta nuovo fascino alla storia.

Le nuove leve – Mariusz Szczygieł, Margo Rejmer

A sentirsi chiamare ‘nuova leva’, Mariusz Szczygieł potrebbe sentirsi offeso o ironicamente lusingato, conoscendo il suo grande senso dell’umorismo. Perché Szczygieł ha superato i 50 anni, è oggi tra gli autori più letti e conosciuti in Polonia, dirige la scuola di reportage di Varsavia ed è il curatore di una monumentale antologia che copre un secolo di storia e un migliaio di pagine del reportage polacco. Associarlo alle nuove leve è un’operazione più di tipo tematico/stilistico che banalmente cronologico, perché non siamo in presenza di un autore che viaggia con il taccuino. Anzi, almeno a scopo professionale non ha mai messo piede in un teatro di guerra, ma ha dedicato i due suoi libri più famosi a un Paese che non sembra avere molto da aggiungere all’immaginario: la Repubblica Ceca. Raccontando, da polacco, storie piccole e grandi del vicino ceco, Szczygieł trasforma completamente il reportage sublimando l’ambizione di raccontare la realtà in un’ambiziosa ricerca della verità. E sono molte le verità prese dalla strada nelle quali possiamo ritrovarci, per confronto o per opposizione, con gli scorci umani e sociali che Szczygieł ritaglia dalle sue divagazioni praghesi in Gottland (Nottetempo, 2009, trad. di Marzena Borejczuk) e in Fatti il tuo paradiso (Nottetempo, 2012, trad. di Marzena Borejczuk). Si tratta di un tipo di reportage quasi olistico, che trova la sua sublimazione in uno degli ultimi libri, Nie ma (Non c’è, 2019, inedito in Italia), nel quale Szczygieł racconta il reale per sottrazione. Un’operazione affascinante, che vira verso la speculazione filosofica, e apre spazi tutti nuovi alla scrittura di non-fiction.

Nella sua ancora giovane carriera, Małgorzata Rejmer, meglio conosciuta come Margo, ha fatto un percorso molto interessante, quasi esemplare nel modo in cui sottolinea i legami tra la narrativa e il reportage. Dopo un esordio sorprendente in narrativa, con il romanzo Toximia (La Parlesia, 2018, trad. di Francesco Annicchiarico), è passata al reportage con due titoli ancora inediti in Italia ma che usciranno presto per Keller edizioni. Il primo, Bucarest, è stilisticamente più acerbo e un po’ ibrido, costruito come un diario di viaggio, fatto di racconti e di aneddoti, di testimonianze e osservazioni, dove le strade della capitale rumena si alternano alle vicende dei suoi protagonisti, passati e presenti. Il libro successivo, il cui titolo sarà Splendidi giorni ci attendono, è dedicato all’Albania socialista ed è un lavoro completamente diverso per spirito, composizione e intenti. Se Bucarest dà l’impressione di essere stato trascritto a partire da Moleskine fitte di appunti, questo nuovo libro mostra da subito un altro peso. Prima di scrivere di Albania, Rejmer ci ha vissuto quattro anni, studiandone la lingua e la storia, imparando a conoscerne la gente e le abitudini. Ha raccolto tante testimonianze, il più possibile autonomamente, e le ha messe insieme. Il risultato è un diorama complesso di brevi reportage che raccontano l’assurdità e la crudeltà quotidiana della vita nell’Albania di Enver Hoxha. Dopo l’esperienza di Bucarest, dove la voce narrante guida e osserva, Splendidi giorni ci attendono è una conversione quasi fideistica al metodo della scomparsa caro ad Hanna Krall. Il risultato è un libro dove le voci sono solo quelle degli altri, le immagini che si creano sono quelle dell’esperienza e dell’immaginazione altrui, che l’autrice non fa altro che raccogliere e riportare. Lo stile è inevitabilmente più brullo, ma mai asettico, mette la realtà in primo piano senza rinunciare al senso più profondo del racconto. Rejmer ha ripetuto a più riprese che il suo obiettivo era dare voce a queste storie e alle loro individualità, ma è evidente che il fine è anche un altro, superiore rispetto a vicende individuali o familiari di dolore e impotenza: è quello di comporre un quadro, stimolare una riflessione e aprire un dibattito. Con qualcosa che resta anche dopo che avremo inevitabilmente dimenticato i nomi e le sventure delle decine di protagonisti di questo libro.

Anche, soprattutto, questo ci viene dal reportage letterario polacco: un profondo rispetto per la verità minuta ma con lo sguardo puntato a domande più grandi e con una scrittura capace di astrarre oltre a mostrare. Di questa non-fiction la narrativa non deve avere paura, e nemmeno Olga Tokarczuk.

 

 

Nell’immagine: un frame da Ancora un giorno, film di animazione del 2018 diretto da Raúl de la Fuente e Damian Nenow e tratto dall’omonimo romanzo di Ryszard Kapuściński.