La vita raccontata da Hanya Yanagihara nel suo secondo romanzo (Sellerio, 2016) è “come tante” solo nella traduzione italiana del titolo. In originale è “little”, risultato dello sforzo incessante del protagonista Jude di rimpicciolirsi per non occupare spazio o arrecare disturbo, ma anche “a little”, un poco di sollievo che gli permette di tirare avanti nonostante il dolore che lo affligge. Sono “un po’ di vita” gli studi in cui Jude eccelle e la professione di avvocato competente e stimato, è un po’ di vita la casa spaziosa che riuscirà ad acquistare, sono sempre un po’ di vita le occasioni in cui l’affetto altrui gli consente di dubitare, ma solo per un momento e mai del tutto, della sua insignificanza e indegnità.
Jude St. Francis è un ragazzo dal passato oscuro che appare in un college e in un dormitorio di New York privo di famiglia, addirittura senza un’etnia certa. Dei suoi tre amici più stretti Willem, Malcolm e JB sono quasi subito riassunte l’infanzia e la giovinezza, ma Jude è un enigma e lo resterà a lungo. Ascolta volentieri, ma di sé non parla mai. Al contrario degli altri, non sembra interessato a relazioni romantiche e non dichiara il proprio orientamento sessuale. Il danno alla spina dorsale e gli occasionali attacchi di dolore alle gambe sono il risultato di un incidente in auto, che Jude menziona soltanto per rispondere a una domanda diretta e senza fornire ulteriori dettagli – che del resto nessuno osa chiedergli. La reticenza di Jude è così decisa e assoluta da suggerire almeno i contorni del suo enorme segreto, e per qualche tempo tanto basta per scoraggiare la curiosità dei suoi amici. In un romanzo che investiga soprattutto le possibilità salvifiche dell’amicizia, questo nodo è centrale: che scarto c’è tra l’impulso a rendersi utile a una persona cara in difficoltà e la capacità di farsi carico di un dolore non proprio? È possibile rimediare a qualcosa che non si ha il coraggio di conoscere? E la qualità della relazione è inferiore se la persona più forte non lo è abbastanza da poter sorreggere entrambi?
Yanagihara sembra riconoscere valore alla porzione di aiuto che ciascuno è in grado di offrire: se solo Willem è determinato a conoscere il passato di Jude, l’architetto Malcolm può ristrutturare la sua casa in silenziosa previsione delle esigenze di un corpo sempre più invalido, e il medico Andy può essere sempre a disposizione per rimediare ad atti via via più gravi di autolesionismo, infezioni e dolori da percosse. Quasi ogni persona che entra nella vita adulta di Jude contribuisce secondo le proprie possibilità a farlo sentire amato, curarlo e consigliarlo, nella speranza che la somma di questi sforzi sia sufficiente per tenerlo insieme. L’alternativa, cioè abbandonarlo ai suoi demoni, non è contemplata: “diagnosticare un problema e non cercare di sistemarlo”, riflette Willem, “sembrava un sintomo non solo di trascuratezza, ma di mancanza di senso morale”.
La storia dell’infanzia di Jude ha almeno due precedenti letterari. In Justine, o le disavventure della virtù (1791), il Marchese de Sade riferisce le peripezie dell’orfana protagonista, tanto più determinata a perseguire un bene che identifica con una rigida condotta sessuale e con la legge dello stato quanto più viene stuprata, torturata, incolpata di crimini che non ha commesso e quasi messa a morte. Come Jude, Justine subisce abusi all’interno di un monastero, viene imprigionata da un medico sadico e se riesce a scappare dai suoi molti aguzzini è solo per cadere nelle grinfie di personaggi ancora più spregiudicati. Le sofferenze di Justine vengono descritte nel dettaglio, con una ripetitività più elencatoria che morbosa. Sade, il più distaccato dei pornografi, non si occupa né di sentimenti né di prurigini; ha piuttosto in mente una parabola negativa che sbeffeggi e rovesci la morale contemporanea, e fa in modo che quello che Angela Carter definisce il “pellegrinaggio” di Justine non si concluda con un trionfo o una catarsi. Justine muore giovane, ma non sacrificandosi per difendere la propria virtù e dunque con la speranza di una ricompensa ultraterrena, bensì colpita da un fulmine che pone fine a una vita di tribolazioni inutili.
Anche Jude scappa dal suo monastero, e lo fa in compagnia dell’unico frate che gli ha mostrato affetto e comprensione: Fratello Luke gli ha infatti promesso una casetta tutta loro, dove Jude potrà continuare a studiare ed essere felice. Come Lolita nell’omonimo romanzo di Vladimir Nabokov (1955), però, trascorrerà mesi e mesi in viaggio per gli Stati Uniti, di giorno in auto e di notte in motel, di notte violentato e di giorno spacciato per figlio dal proprio stupratore. Forse il più incompreso tra i romanzi, e quello con l’eredità più distante dalle intenzioni del suo autore, Lolita non è che lo strato di bugie e finzioni a cui Humbert Humbert è costretto a credere per potersi assolvere. Poco prima di raccontare la prima volta in cui stupra la dodicenne Dolores Haze, dichiara di voler “strenuamente dimostrare che io non sono, né mai sono stato, un bruto o un farabutto”, e poco dopo che “fu lei a sedurre me”. Il romanzo è fitto di interventi di Humbert Humbert che con discrezione manipola e filtra le circostanze per camuffare la brutalità delle sue azioni. L’infantile capricciosità di Dolores è descritta come civettuola, è così l’uomo che la tiene prigioniera può dichiararsene tiranneggiato come se fosse alla mercé di una donna abile e spregiudicata. Nei capitoli conclusivi, Humbert Humbert è costretto a riconoscere la verità dei fatti ed elenca alcune occasioni in cui l’infelicità di Dolores è stata sotto ai suoi occhi e lui ha scelto di ignorarla per continuare ad abusare di lei; tuttavia, non rinuncia né al ruolo di innamorato dal cuore infranto né soprattutto a possedere di nuovo, e stavolta per sempre, la sua vittima. Lo fa proprio attraverso le memorie scritte, l’unico spazio in cui ciò che è avvenuto può essere una storia d’amore invece che di sopraffazione. La misura del pentimento di Humbert Humbert è questa: non può fare a meno di cristallizzare per sempre Dolores in ninfetta, privandola dei mezzi per emanciparsi dalla sua storia di violenza. Perché ciò avvenga, naturalmente, è necessario che lei muoia prima di invecchiare.
Sade e Nabokov non stanno davvero parlando delle loro protagoniste: le posizionano al centro della vicenda, ma si servono di loro per altri scopi. Per questa ragione, non possono che farle sopravvivere finché sono vittime e non un minuto di più, e sono costretti a sottrarre loro anche il controllo di ciò che viene narrato affidando il racconto ad altri e ignorando il loro punto di vista. Ma cosa succede se Dolores Haze non muore di parto? Sarà mai felice con suo marito, le piace fare l’amore con lui? Riuscirà mai a fidarsi di qualcuno? Una vita come tante inizia dove Justine e Lolita finiscono e sposta il baricentro sulla vittima, per comprendere cosa resta di un bambino stuprato da persone di cui aveva creduto di potersi fidare.
Mentre i suoi amici si costruiscono come adulti in relazione ai propri legami familiari, alla propria classe sociale e alla propria appartenenza etnica, Jude non ha che il proprio trauma da cui partire. In un’intervista concessa al Guardian, Yanagihara ha dichiarato di non essere davvero interessata a raccontare l’abuso: un’affermazione che sembra contraddire il considerevole spazio riservato al resoconto dell’infanzia di Jude. Ciò che più conta è però come, e quando, queste informazioni sono inserite nel romanzo. Quasi nulla è rivelato nella prima parte, che pare accompagnare Jude in un lento, faticoso ma inarrestabile processo di guarigione. La laurea, il lavoro, le amicizie e la conoscenza con quelli che poi diventeranno i suoi genitori adottivi sembrano prefigurare un esito tanto lieto quanto le premesse lo consentono. Forse Jude non potrà mai aspirare a una vera felicità, ma sa per ora trarre conforto dal tempo che trascorre e lo allontana dai giorni delle violenze.
La stabilità emotiva di Jude è però illusoria. Non deriva dalla risoluzione dei suoi traumi, che sarebbe forse possibile se il sostegno psicologico proposto da Andy venisse preso in considerazione, bensì dalla loro repressione. Jude si sente ancora sporco e colpevole per ciò che gli è stato fatto, ritiene di non meritare l’affetto di cui è circondato, e continua a tagliarsi. Durante una cena incontra un uomo, e quella stessa sera si rende conto di non essere capace di rifiutare attenzioni sessuali perché non gli è mai stato insegnato né permesso. Non è un’eccezionale cattiva sorte a condurlo di nuovo all’interno di una dinamica di sopruso e umiliazione: semplicemente, non ne ha mai conosciute altre. In poche settimane è intrappolato in una relazione abusante, incapace di reagire e troppo mortificato per chiedere aiuto, e ben presto il suo compagno lo malmena al punto da farlo finire in ospedale. Lo shock subìto e la vergogna provata funzionano da trigger ed è da questo momento, non prima, che il racconto del passato di Jude affiora sempre più spesso nelle pagine – proprio come il ricordo torna continuamente a tormentarlo nel sonno, sotto forma di incubi terribili, e durante le ore coscienti, in cui si consolida la certezza di non avere scampo.
Sarò sempre la persona che ero, conclude. Il contesto potrà essere cambiato: potrà anche avere il suo appartamento, un lavoro che gli piace e lo fa guadagnare bene, genitori e amici che ama. Potrà essere rispettato e, in tribunale, perfino temuto. Ma, fondamentalmente, è rimasto lo stesso […] a prescindere da cosa lui decida di fare, o da quanti anni lo separino dal monastero, da Fratello Luke, o da quanto guadagni o da quanti sforzi compia per dimenticare.
È evidente allora che a Yanagihara non interessi il racconto dell’abuso come sterile catalogo di sofferenze inflitte: le interessano invece molto le tracce e gli strascichi dell’abuso, e lo spazio che questo continua a occupare anche a distanza di anni. Soprattutto, le preme restituire su pagina un dolore che non lascia tregua né respiro, da cui non ci si può distrarre nemmeno scarnificandosi le braccia o scagliandosi contro il muro, e che nemmeno il più ostinato e comprensivo degli affetti può lenire del tutto. Nei sempre più frequenti picchi di disperazione di Jude, Yanagihara si sofferma su ogni gesto di autolesionismo e su ogni pensiero suicida senza concedere la consolazione di poter distogliere lo sguardo. Sono i passaggi in cui la lettura si fa faticosa e angosciante, insopportabile come lo strazio che Jude sta attraversando.
La deliberata centralità dell’esperienza di Jude nell’economia del romanzo contribuisce a rendere invisibile e scontato ciò che invece funziona, non solo attorno a lui ma anche per tutte le persone che conosce. Per esempio, la fluidità sessuale dei suoi amici non è mai messa a tema ma soltanto mostrata, senza generare alcun conflitto: questo non è un romanzo in cui i genitori non accettino l’omosessualità dei figli, o in cui una persona che fa coming out in età adulta debba delle spiegazioni a chi l’ha sempre vista in relazioni eterosessuali. A Malcolm e JB non accade nulla che possa ricordare loro di non essere bianchi in un paese strutturalmente razzista. All’ambizione professionale di ciascuno corrispondono il successo che tutti conseguiranno con poca fatica e le ricchezze che accumuleranno. Tutto questo è presentato come ovvio: a evidenziare questa condizione di privilegio condivisa non c’è alcun contraltare di rovina o povertà, se non temporaneo e facilmente rimediabile come la breve tossicodipendenza di JB. Nella cerchia di Jude e soprattutto per Jude, diverse case di proprietà e lunghe vacanze in un altro continente non sono lussi bensì riempitivi deludenti, promesse inesaudite di un benessere che continua a sfuggire. La tensione di fondo di Una vita come tante è quella tra la peggiore delle infanzie possibili e il migliore dei mondi possibili, vale a dire l’unico mondo in cui un individuo così profondamente danneggiato avrà mai una reale possibilità di guarigione.
La storia di un uomo del tutto definito dalla propria condizione di vittima e incapace di smarcarsene non è certo esemplare, e non sono mancate le recensioni che hanno collegato il successo di Una vita come tante alla rinascita sociale della “vittima come status”. Ma Yanagihara, al contrario di Sade, non scrive parabole, non propone visioni del mondo, né tantomeno prescrive modelli. L’assenza di retribuzione che caratterizza la vicenda di Jude non ribadisce né confuta una regola: è solo una casualità, e per questo non può offrire insegnamenti. Senza la pretesa di essere scomoda o provocatoria né la volontà manifesta di distanziarsi dalle storie di empowerment ed emancipazione dal dolore, Yanagihara presenta uno scenario in cui l’amore non basta e raccontarsi a qualcuno non è affatto garanzia di salvezza. Tra il vero e il verosimile aristotelici, non sceglie ciò che risulta verosimile in un’opera di finzione, bensì la verità caotica e senza scopo di ciò che accade alle persone nella realtà. In questo la vita di Jude è “come tante”: le nostre esistenze non sono governate dalle esigenze narrative che strutturano un romanzo, i nostri archi di redenzione sono imperfetti e accidentati e talvolta falliscono, e non c’è un narratore caritatevole che ti mette al riparo da una disgrazia per permetterti di superare un trauma al meglio delle tue capacità.