La Petite Ceinture era una linea ferroviaria che, fra il 1852 e il 1934, circondava Parigi. Lungo i suoi binari, che correvano per trentadue chilometri, si trovavano molte stazioni. Una di queste era la Gare de Flandre, nel diciannovesimo arrondissement, quartiere Pont-de-Flandre, dalle parti della Villette. Venne aperta ai viaggiatori il 26 aprile 1869 e chiusa il 23 luglio 1934. La stazione venne poi utilizzata come abitazione, per poi diventare uno squat di artisti e, dall’estate del 2017, un jazz club. Quella sera, in quel jazz club stava suonando un quartetto: sassofono, tromba, contrabbasso e batteria. Io mi trovavo in piedi accanto alla pedana raccapezzata che fa da palco, vicino alla porta del bagno, piena di tag e altre scritte, e a un paio di metri dal batterista. I quattro musicisti pestavano forte su alcuni brani di Ornette Coleman, swing nervoso dalle tinte di blues acido. La sala era piena, alla fine di ogni solo scattavano urla e applausi, mentre la luce soffusa s’incuneava fra le crepe delle pareti scrostate del locale. Alcuni degli ascoltatori parevano sudare come i musicisti sul palco. A un certo punto, come da protocollo, il sassofonista presentò al pubblico i musicisti. Disse il nome del trombettista e scattò l’ovazione del pubblico, e il trombettista sorrise felice e grato. Poi disse il nome del batterista e scattò l’ovazione del pubblico, e il batterista sorrise felice e grato. E poi il leader del quartetto esitò e si voltò di soppiatto verso il contrabbassista, e gli chiese: «Scusa, tu com’è che ti chiami?»
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Tu quoque, Trane. In Coltrane secondo Coltrane, lo storico del jazz Chris DeVito ha raccolto tutte le (poche) interviste di John Coltrane, un tipo molto taciturno e riservato. Quando si arriva a un’intervista del 1958, ecco che Coltrane dice: «C’erano Richard Powell al piano, Lawrence Brown, Emmett Berry e un tizio che si chiamava Jimmie Johnson alla batteria. E il contrabbassista… mi sono dimenticato il nome». Poi, poco più avanti: «Una di quelle volte che aveva nel gruppo Sonny Rollins, e Bud, e Art Blakey, ma mi sono dimenticato il contrabbassista». E ancora: «C’era Elvin Jones, e mi sono dimenticato chi c’era al contrabbasso». Oppure: «E poi quel bassista lì, come si chiama…»
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Il 16 aprile 2019, il sito satirico d’informazione Lercio.it pubblica una notizia – deliziosamente falsa come sempre – a tema jazzistico. La foto che accompagna il titolo – come spesso accade in questa testata umoristica, la notizia si limitava al titolo – ritrae Ron Carter, uno dei più grandi contrabbassisti della storia del jazz, membro dello storico quintetto di Miles Davis della metà degli anni Sessanta, presente in molti dischi fondamentali e, insomma, un grande vero. Ma ecco il titolo di Lercio: «Contrabbassista jazz si addormenta durante il suo assolo».
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Quella sera del 1970, Thelonious Monk stava suonando alla Shelly’s Manne-Hole, un locale di Los Angeles. Lo accompagnava un contrabbassista bianco: Putter Smith. Fra il pubblico c’era anche Guy Hamilton, regista che si stava preparano per girare il suo prossimo film: Agente 007 – Una cascata di diamanti. Hamilton venne attratto dalla buffa figura del contrabbassista. Lo fissò per tutta la sera. E alla fine decise di scritturarlo per una parte in quel prossimo film di James Bond. In quale ruolo? Il cattivo, ovviamente. Il perfido e ottuso cattivo.
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E si potrebbe andare avanti a lungo, perché di storie di questo tipo non ne mancano. Ma ormai il concetto chiaro: quella dei contrabbassisti è una categoria da proteggere. Ma non con un sindacato, né con una legge, né con un comitato o un’associazione. Serve piuttosto un santo protettore, un santo protettore laico. O, meglio, un angelo custode, un angelo custode collettivo.
D’altronde, i contrabbassisti angeli già lo sono anche in vita, a modo loro. Angeli protettori e guide discrete del gruppo con cui stanno suonando; angeli intercessori, mediatori fra gli altri strumenti; angeli della notte, come in alcune celebri foto in bianco e nero che li ritraggono mentre vanno verso i jazz club, trascinando il loro ingombrante strumento come fosse un orso affettuoso che gli si è addormentato in braccio; angeli della notte compromessa dai colori aggressivo-passivi dell’alba, quando da quei club escono dopo concerti e jam session interminabili. E io un candidato da proporre per il ruolo di angelo custode e santo protettore dei contrabbassisti ce l’avrei: si chiama Scott LaFaro.
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Il santo pianista Bill Evans e Scott LaFaro s’incontrarono per la prima volta nello studio dov’erano stati convocati da Tony Scott per registrare un suo album. Era il 1959, un anno fatidico per la storia del del jazz (in quei dodici mesi uscirono, giusto per citarne alcuni, gli album Kind of Blue di Miles Davis, Mingus Ah Uhm di Charles Mingus, The Shape of Jazz to Come di Ornette Coleman e Giant Steps di John Coltrane, per dire).
LaFaro aveva ventitré anni, Evans trenta. E, per coincidenza, a quella sessione partecipò anche il batterista Paul Motian. I tre, che a malapena si conoscevano. si trovarono a suonare insieme nel brano Misery, che Tony Scott aveva composto alla memoria di Billie Holiday, che aveva da poco lasciato questa terra, dopo aver reso un po’ meno penoso il nostro viverci.
Era la prima volta che il grande trio suonava insieme: Bill Evans al pianoforte, Scott LaFaro al contrabbasso e Paul Motian alla batteria.
Era già da un bel po’ che Evans aveva intenzione di mettere su un proprio gruppo. Dopo alcuni tentativi sfortunati con vari musicisti, incluso il contrabbassista Jimmy Garrison – che gli aveva suggerito Miles Davis e che in seguito sarebbe stato la più leale delle colonne portanti del sacro quartetto di John Coltrane –, e dopo alcuni ingaggi perfino umilianti, quelle circostanze fecero sì che poté finalmente nascer il trio con LaFaro e Motian. Il pianista: «Mi auguro che il trio prenderà la direzione di un’improvvisazione simultanea, piuttosto che un tizio che suona e fa il suo numero seguito da un altro tizio che fa il suo. Per esempio, se il contrabbassista sente uno spunto al quale vorrebbe rispondere, perché mai dovrebbe continuare a suonare i quattro quarti sullo sfondo?»
Nipote di due emigrati dai paesini calabresi di Cannitello e Falerna negli Stati Uniti a fine Ottocento, Rocco Scott LaFaro aveva cominciato a suonare il contrabbasso a diciassette anni. Nel 1956 sarebbe finito nel gruppo di Chet Baker, e all’audizione erano presenti anche Evans e Motian: LaFaro non fece una buona impressione a nessuno dei due. Si trasferì a New York nell’anno migliore per farlo: il 1959. Lo stesso anno in cui, per esempio, Bill Evans partecipò – e con un ruolo più che decisivo – alla registrazione del fortunatissimo Kind of Blue di Miles Davis. Suono con Monk, Coltrane, Coleman (nell’album Free Jazz, cribbio) e altri dèi e dee dell’Olimpo.
L’audizione con Monk: Scott entrò, e Monk stava guardando fuori dalla finestra, fisso. Lo fece a lungo, in silenzio. Poi disse a Scott di suonargli qualcosa. Dopo che Scott finì, fissò di nuovo a lungo fuori dalla finestra, a lungo, e gli chiese di suonare di nuovo, cosa che Scott fece. E ancora quella finestra e quel silenzio. Così per cinque volte. Poi Monk disse a Scott: «Nice talking to you». Fine.
LaFaro poi andò in tour con Benny Goodman e, poco dopo, l’incontro: quello con Bill Evans e Paul Motian.
Il trio trovò presto il primo ingaggio allo Showplace, un piccolo club di New York. E, nel dicembre del 1959, i tre entrarono in studio. Ne sarebbe venuto fuori Portrait in Jazz, per l’etichetta Riverside. I punti di forza del gruppo sono già evidenti, e la sottile intesa fra Evans e LaFaro è delicatamente elettrizzante. Quando il pianista lascia dei momenti di silenzio o di sospensione, LaFaro vi si infila con frasi intense, mai invadenti ma comunque sempre in primo piano. Sia nei momenti di accompagnamento più convenzionale, sia negli assoli e nei botta e risposta con i due partner, LaFaro opta per soluzioni mai troppo convenzionali, energiche e liriche insieme. «Era vicino a essere un mistico», disse di lui Ornette Coleman. Fin dall’inizio della vita di quello storico gruppo, Scott LaFaro seppe soddisfare il desiderio più ambizioso di Evans per il suo trio: che le loro voci avessero lo stesso peso, lo stesso coraggio, che il trio fosse un triangolo. Ma non si limitò a un triangolo: finì per diventare una trinità.
Intanto, LaFaro non si faceva di eroina, ma Evans sì. E i due finivano spesso per litigare per questo. Ma Bill riusciva a gestire la sua dipendenza con una sorta di paradossale buon senso, e non esisteva una San Patrignano dei jazzisti – che ti piaccia o no. Evans era, per esempio, qualcuno che ci teneva a restituire sempre i soldi che gli venivano prestati da amici e altri musicisti per le sue dosi, e questo anche quando i creditori avevano dimenticato o dato per perso quel debito. Ma l’eroina era eroina, e Scott gli ripeteva sempre, per pungolarlo: «Se non ne valesse la pena, se non mi piacesse lavorare con il tuo trio, non starei qui a perdere tempo con te».
Il gruppo ingranò e la voce si sparse. Partirono per un tour e i tre raggiunsero presto il loro apogeo. Paul Motian racconta che una sera a Chicago, quando sentì Evans e LaFaro rispondersi magnificamente mentre suonavano ’Round Midnight di Thelonious Monk, non poté più trattenersi: «Quei due tizi mi fecero venire le lacrime agli occhi».
La collaborazione musicale fra Evans e LaFaro si trasformò presto in un’amicizia viscerale. Andavano per esempio al cinema insieme. Nel 1960 videro fianco a fianco Spartacus di Stanley Kubrick. Uscendo dalla sala, si dissero che avrebbero potuto suonare con il trio il tema portante della colonna sonora del film. Lo fecero.
Nel febbraio del 1961 i tre entrarono in studio per un altro album: Explorations. Ma, ricorda il produttore Orrin Keepnews, il pianista e il contrabbassista avevano appena litigato per chissà cosa, Evans aveva mal di testa e LaFaro dovette suonare con un insoddisfacente strumento sostitutivo, mentre il suo fidato contrabbasso fabbricato in Vermont era in riparazione. Non un disco indimenticabile. Ma, al di là dei rari momenti di minor forma, quando suonavano i tre parevano ognuno concentrato su di sé e sul proprio mondo tanto musicale quanto esistenziale interiore. E invece le interazioni erano continue, ininterrotte, allo stesso tempo sottili ed evidenti. Il trio pareva respirare insieme. Una sorta di entità organica. «I began to hear differently», dirà Motian. Mettersi in discussione, mettere in discussione il proprio modo di vivere: e farlo cominciando con il mettere in discussione il proprio modo di sentire e ascoltare.
Tutto ciò fu chiaro a tutti soprattutto quando, quel 25 giugno 1965, Evans, LaFaro e Motian cominciarono a suonare al Village Vanguard, club intimo, tempio, santuario, ancora aperto e non molto diverso da quegli anni. Una volta, lì, il santo contrabbassista e compositore e golosone Charles Mingus, in uno dei suoi celebri attacchi d’ira, smontò letteralmente la porta del locale e la gettò giù per le strette scale. La ragione? Sulla locandina non avevano scritto bene il suo nome: Charles, non Charlie, perdinci.
Evans, LaFaro e Motian suonarono cinque set, fra tardo pomeriggio e serata. Il gruppo era in stato di grazia. Le registrazioni di quella giornata al Village Vanguard sono il loro vertice. Evans improvvisava, LaFaro non si limitava ad accompagnarlo ma improvvisava a sua volta, e Motian teneva il tutto insieme con un pulsare che sapeva assecondare il respiro dei due: li teneva con i piedi per terra mentre li aiutava a innalzarsi.
Mentre tutto il mondo del jazz era già al corrente di quanto Bill Evans fosse un grande pianista, era Scott LaFaro la sorpresa. Non solo per la sua virtuosa abilità di contrabbassista e compositore (in quel periodo scrisse i meravigliosi brani Jade Visions e Gloria’s Step, per esempio), ma anche per la sua dirompente capacità di stare al gioco di Evans e alla sua idea di trio in forma di triumvirato. Una triangolazione perfetta. «Scott era fantastico nel sapere esattamente quale sarebbe stato il tuo pensiero. Mi chiedevo “ma come sapeva che avrei fatto questo?” E lui stava probabilmente pensando la stessa cosa». Come certi amici. Era questo il sospetto: che la loro intesa sul palco fosse solo la sublimazione della loro amicizia.
Tuttavia, per essere eletti al ruolo di angeli custodi o santi protettori, serve una condizione fondamentale: non essere più di questo mondo.
Solo dieci giorni dopo quel leggendario 25 giugno 1965 al Village Vanguard, Scott LaFaro guidava verso casa dei suoi genitori, a Geneva, nel nord dello stato di New York. Insieme a lui, un amico, Frank Ottley. La ragione del viaggio erano alcune faccende di casa: scocciature burocratiche che il giorno dopo – troppo tardi, come sempre – si sarebbero rivelate inutili.
Andarono prima a casa di un amico, proprietario di un buon stereo. Lì ascoltarono Il mandarino meraviglioso di Béla Bartók, e, con un certo orgoglio da parte di Scott, Autumn leaves, la sua registrazione con Bill Evans. Misero sul giradischi anche il brano Grey December cantato da Chet Baker – altro musicista scampato all’inesistente San Patrignano di alcuni jazzisti di quegli anni – e Scott, durante l’ascolto, commenterà assorto: «Chet è una tragedia americana».
E poi fu ora di tornare a casa, anche se era tardi. Gli amici di Scott e Frank suggerirono di fermarsi per la notte, ma i due preferirono ripartire.
Presero la Route 20, una strada di campagna non illuminata.
Poi, forse, un colpo di sonno.
L’auto sbandò.
Si schiantò su un albero.
Andò a fuoco.
Scott aveva venticinque anni.
Una «tragedia americana», già.
(Il cielo, o quel che è, ha talmente bisogno di angeli contrabbassisti che la modalità più ricorrente di prenderseli è quella, piuttosto sbrigativa, degli incidenti stradali. Oltre a LaFaro, c’è per esempio Ralph Peña: contrabbassista con Stan Getz, Art Pepper, Ben Webster, Sinatra, Ella Fitzgerald e molti altri, un giorno, mentre si trovava a Città del Messico per registrare una colonna sonora, un’auto lo centrò mentre attraversava la strada. Oppure Walter Page, contrabbassista con Count Basie e molti altri, che nel 1957 si prese una polmonite fatale mentre andava in auto a una seduta di registrazione. E così via. Pare non siano solo i ciclisti a rischiare troppo sulle nostre strade.)
Il giorno dopo, a Long Island, un poliziotto bussa alla porta di Gloria Gabriel, la fidanzata afroamericana di Scott. Aveva una notizia da darle.
Poi lo seppe anche Paul Motian: «Bill mi telefonò. Stavo dormendo. Quello che mi disse mi sembrava un sogno, e tornai a dormire. Quando mi svegliai, ero convinto fosse un sogno. Richiamai Bill, e mi disse che era vero».
La vita di Evans era già complicata, fra le fasi di depressione e la dipendenza da eroina, per non parlare di quel che gli sarebbe accaduto in seguito: il suicidio della prima moglie e quello del fratello. La morte di Scott fu una finestra che si spalancava sull’abisso. Nel suo taccuino, il pianista scrive: A door closed somewhere… We had done something, Scotty, Paul, and I.
Con la morte del suo contrabbassista, del suo amico prezioso, Bill Evans aveva perso la speranza di ritrovare una situazione musicale – e di vita – altrettanto perfetta, altrettanto desiderabile. Il ricordo di Scott LaFaro rimase talmente presente, se non ingombrante, che uno dei contrabbassisti che avrebbero in seguito accompagnato Bill Evans, Eddie Gomez, avrebbe chiamato suo figlio Scottie.
Dopo la morte di LaFaro, Evans non toccò il pianoforte per molti mesi. Non solo in pubblico: neanche a casa.
La sua vita sarebbe durata ancora venticinque anni: un lutto lungo venticinque anni.
Il primo album con il materiale registrato in quel memorabile tardo pomeriggio e serata al Vanguard, Sunday at the Village Vanguard, venne pubblicato nel settembre del 1961 (sempre nel 1961, ne uscirà un secondo: Waltz for Debby). Considerata la situazione, la casa discografica decise di aggiungere il sottotitolo Featuring Scott LaFaro. Il produttore chiese a Evans di scrivere qualche riga su LaFaro per le note di copertina, ma lui non ci riuscì: si sentiva ancora troppo sopraffatto.
(Ripensi a tutto questo, ti alzi, riprendi quei due dischi in mano, li volti e leggi la sequenza di brani che contengono: li fissi e, lì sotto i tuoi occhi, un titolo dopo l’altro, ti paiono trasformarsi in versi poetici – la lista dei brani si dissolve in una poesia).
Sul ritratto fotografico nella copertina di Sunday at the Village Vanguard, il pianista appare scheletrico, tormentato, e il peggioramento della sua insospettabile ma persistente dipendenza da eroina è evidente.
In quei mesi si trovavano a New York suo fratello Harry e sua moglie Pat. Fu lei a raccontare che, una volta, sorprese Evans a vagare in città.
Lo vide. Lo riconobbe.
Provò a chiamarlo, invano.
Poi lo guardò meglio. E si accorse di qualcosa: Bill indossava i vestiti di Scott.