Le identità immaginarie di Satoshi Kon

‘’Chi è là?’’ Con questo primo verso di Amleto, Shakespeare anticipa la questione dell’identità e della sua conoscibilità nel canone letterario moderno. Chi siamo? Come lo sappiamo? Siamo così sicuri che siamo chi crediamo di essere? Queste domande sono al cuore dell’opera del regista di film d’animazione giapponese Satoshi Kon. I suoi quattro lungometraggi danno forma a una tesi sulla natura dell’identità e come essa si relaziona alla finzione. Chiede come capiamo noi stessi attraverso i suoi film, e risponde a questa domanda con semplicità: con i film. Capiamo noi stessi attraverso le identità fittizie che assumiamo in modo performativo. Siamo ciò che facciamo finta di essere. Siamo ciò che diciamo di essere.

I film di Kon frammentano questa idea in una progressione psico-cinematica, come le “cinque fasi del lutto” per l’identità. Perfect Blue presenta il conflitto: si concentra sui danni arrecati dall’instabilità dell’identità. Poi Millennium Actress incoraggia quest’ansia accogliendo questo falso presupposto e trovando stabilità nella sua illusione. In Tokyo Godfathers, questa esibizione diventa una lotta di potere: manifestiamo la nostra identità tramite l’azione. E, infine, Paprika ci mostra come possiamo indagare questo fondamento fittizio della nostra identità e guadagnare consapevolezza. L’instabilità dell’identità fa paura, ma se l’accettiamo può essere di conforto; anche se creare quell’immaginario può essere dura possiamo comunque usarlo per capire noi stessi. 

Perfect Blue è il più cupo dei quattro film, incaricato di presentare il nucleo di questo conflitto psicologico con in cambio la minore risoluzione. La sua idea è che l’identità sia fondamentalmente instabile e metafisicamente falsa. L’identità è vuota; è un costrutto fabbricato non a servizio del sé ma dell’altro, è solo una recita che mettiamo in scena per il resto del mondo. Il film rovescia le nozioni tradizionali di identità, decentrando il sé e mettendo in primo piano l’altro. L’immagine viene prima della persona, l’esibizione prima dell’esperienza vissuta, il pubblico si eleva sul privato, l’online si innalza sull’offline. Non siamo chi siamo per noi stessi, dice, siamo chi siamo per la gente.

Perfect Blue segue Mima Kirigoe, una pop star in fase di transizione verso una carriera da attrice – un personaggio letteralmente tra due identità. Ancor prima di vederla sullo schermo sentiamo parlare di lei come gossip: il film si apre con la sua esibizione finale con il gruppo J-Pop CHAM!, e il nostro incontro con lei è mediato dalle parole eccitate del suo pubblico. Esiste in quanto immagine che il suo pubblico può consumare prima ancora di esistere come persona. Quando infine appare, lo fa in costume; la sua esibizione precede la sua reale esistenza. È una parola e una messa in scena prima di essere un essere umano.

Quando finalmente appare come persona le cose non migliorano granché. Kon utilizza tagli di montaggio ingannevoli che sembrano implicare una continuità d’azione, ma l’ambiente tra un taglio e l’altro è completamente diverso. Mima oscilla la testa da destra a sinistra mentre balla sul palco, e il film taglia su di lei che fa lo stesso identico movimento, ma ora è al supermercato. Kon taglia tra Mima nel proprio personaggio e fuori da esso in modo da rendere ambiguo in qualsiasi momento quando Mima sia davvero se stessa. Le scene iniziano e dobbiamo capire se Mima sta recitando o meno. È una tecnica magistrale che porta il pubblico direttamente nei suoi panni: sta faticando con i limiti della sua identità, provando a capire quando la sua interpretazione finisce e il suo sé autentico inizia, cosicché il film forza il pubblico a chiedersi la stessa cosa. Ci si chiede ripetutamente se stiamo guardando la “vera” Mima o no, finché non siamo più del tutto sicuri che una “vera” Mima esista sul serio. 

Mima diventa sempre più una parte centrale in uno sceneggiato televisivo mentre un numero sempre maggiore di omicidi viene commesso in suo nome, e mentre la sua identità si frantuma gradualmente Mima comincia a chiedersi se non sia lei stessa a commetterli. Sta girando una scena per lo show quando il regista la informa che ha appena ucciso un uomo – intendendo il suo personaggio – ma questa affermazione diretta e il suo implicito fraintendimento sono troppo per lei, che sviene. 

Mima si sveglia nel suo letto, e la terapista dello sceneggiato appare al suo fianco. “Può dirmi il suo nome?” le chiede. “Mima Kirigoe,” risponde Mima. La terapista le chiede cosa fa nella vita, e Mima descrive la sua transizione da idol pop ad attrice. La terapista esce da quel che ora appare essere una stanza per le interrogazioni e informa la sua collega che Mima soffre di un disturbo dissociativo dell’identità, e che ha ucciso delle persone sotto l’influenza di un’altra personalità.Per lei la personalità d’origine non è nulla più che il personaggio di uno sceneggiato. Essere una ragazza ‘normale’… il modo in cui è stata violentata in uno strip club… tutto è successo come parte di una serie televisiva. Così facendo ha preservato il proprio cuore.Stacco su Mima: Esatto. Sono un’attrice.

”Taglia!” urla il regista. Lui e gli altri attori guardano la registrazione, e il nome di Mima cambia in Rika Takakura, il suo personaggio nello sceneggiato. Parte di ciò che è così stridente in questa scena è che finalmente pensavamo di avere risposte concrete su ciò che stava succedendo: Mima ha descritto la sua situazione, e la terapista ha offerto una spiegazione comprensibile sia degli eventi che del suo punto di vista instabile. Tutto aveva finalmente senso: Mima era così confusa perché aveva un disturbo dissociativo dell’identità. Era difficile per noi riconoscere ciò che era effettivamente vero perché non era chiaro nemmeno per lei. 

Ma poi il regista conclude la scena, e invece di vederla abbandonare il suo personaggio facendoci capire che era tutta una messa in scena per lo spettacolo, Mima sembra confusa come sempre. Il film ci intrappola in questo spazio liminale tra Mima l’attrice e Mima l’assassina, lo stesso spazio in cui la stessa Mima è intrappolata. Il film termina con Mima che visita il vero killer, e un inserviente sussurra che deve essere una sosia, che in nessun modo la vera Mima lo visiterebbe. Il film si conclude con un’inquadratura del riflesso specchiato di Mima che guarda direttamente nella telecamera dicendo “No, io sono vera!” sfidandoci a non crederle.

Mima dà voce all’ansia centrale del film: “Non so più nulla di me stessa!” La terapista risponde, “Come credi di sapere che la persona che eri un secondo fa sia la stessa persona che sei ora? Un flusso continuo di ricordi; dato solo questo, tutti creiamo illusioni dentro di noi dicendo che ognuno di noi ha una sola, inamovibile personalità.” Questa è la tesi di Kon in Perfect Blue: l’identità è un’illusione. Come facciamo a conoscere noi stessi? Non possiamo, almeno non in modo rassicurante, stabile o singolare. Siamo tutti come Mima, intrappolati tra varie personalità. Chi è là? Nessuno. 

Ma se Perfect Blue è il tunnel oscuro, Millennium Actress è la luce alla sua fine. Millennium Actress gioca ancora con quest’ansia ma in un modo diverso e con una diversa conclusione. L’identità è ancora un’illusione, il processo della formazione dell’identità è altrettanto instabile, ma dove Perfect Blue restava ambiguo fino alla fine, Millennium Actress lascia spazio alla conoscenza di sé nonostante l’instabilità dell’identità. La protagonista si definisce allo stesso modo attraverso la propria esistenza dentro uno spazio fittizio, ma anziché ricavarne ansia trova questa identità soddisfacente, nonostante la sua natura artificiale.

Millennium Actress segue due documentaristi che intervistano Chiyoko Fujiwara sulla sua esperienza di attrice per uno studio cinematografico giapponese ormai defunto. Le interviste scatenano flashback, spesso portandosi dietro sia l’intervistato che l’intervistata. Raccontare la storia porta la storia a manifestarsi: passato e presente coesistono simultaneamente. Dopo aver terminato le interviste, Chiyoko dice: ”È come se, mentre lei ascoltava la mia storia, la me più giovane fosse tornata in vita”. Questa plasticità tra realtà e messa in scena ricorda Perfect Blue, ma qui la mescolanza tra passato e presente e tra finzione e realtà non porta a uno stato di panico e disperazione. Invece di costruire ambiguità, costruisce un ritratto di Chiyoko sempre più interessante. Ma anche se il risultato è diverso il processo resta lo stesso. C’è una sorta di raddoppiamento metacinematografico in entrambi i casi: impariamo a conoscere Chiyoko attraverso i suoi flashback-performance mentre lei impara a conoscere se stessa, nello stesso modo in cui disimpariamo di Mima attraverso la sua interpretazione attoriale mentre lei disimpara di se stessa.

La causa scatenante per i flashback di Chiyoko, il punto d’origine per la storia all’interno del film, è una chiave, un simbolo non troppo sottile che definisce la sua vita. “È la chiave per la cosa più importante che esista,” racconta a chi l’intervista. La chiave appartiene a un uomo in cui si era imbattuta tempo addietro, e che lei ha conservato nella speranza di potergliela un giorno restituire.

La sua ricerca dell’uomo misterioso la porta a partecipare alla produzione di diversi film, tra cui un jidaigeki (film in costume giapponese, NdR) in cui interpreta un personaggio che ha perduto il proprio amante. Il personaggio tenta il suicidio, ma una strega glielo impedisce dicendole che se berrà una pozione magica sarà riunita con il suo amante nell’aldilà. Chiyoko ha usato i propri ruoli nei film per superare i suoi problemi nella vita reale, convincendosi a continuare a vivere interpretando un ruolo in cui la si convince a continuare a vivere. Tuttavia questa convinzione non le ridà indietro l’uomo misterioso, né nella realtà né nel jidaigeki. La strega l’aveva ingannata: la pozione non la riuniva con il suo amante, ma la infondeva invece di un amore eterno per lui. Il punto è proprio questo: la pozione non le ha ridato l’uomo che aveva perso, le ha ridato piuttosto l’illusione che aveva perduto. Non è questione di riaverlo indietro, piuttosto è questione di mantenere vivo il desiderio per lui e avere qualcosa per cui valga la pena continuare ad avanzare.

Il film utilizza un leitmotiv visivo ripetuto di Chiyoko che corre; questo movimento costante svolge un ruolo simile all’instabilità in Perfect Blue, anche se qui è un’instabilità affermativa. In Perfect Blue sia il personaggio che il suo ambiente circostante sono costantemente in movimento, mentre in Millennium Actress è solo lo sfondo a essere instabile. Chiyoko potrebbe anche correre nel vuoto, ma continua a correre sempre. Inoltre, la mancanza di stabilità le dà slancio e scopo, anche se quello scopo è, alla fine, vuoto, una linea protesa in avanti con il nulla alla sua fine. Non scopriamo mai cosa apre quella chiave e Chiyoko non si riunisce mai con l’uomo a cui essa apparteneva, ma questo non la ferma dal correre. Chiyoko riconosce che anche se dovessero ricongiungersi non sarebbe la fantasia che aveva immaginato. “Non ero più la stessa persona che lui ricordava.” Stava inseguendo l’ombra di un uomo che non era più lì: la chiave le ha dato un percorso, ma non era un percorso che deve essere completato per forza. “Dopo tutto, ciò che amo davvero è rincorrerlo.”

Millennium Actress si apre e si chiude con una scena da uno dei ruoli fantascientifici di Chiyoko in cui lei afferma di doversene andare perché aveva “fatto una promessa.” La promessa, la chiave e la corsa sono tutte la stessa cosa: la sua fedeltà a quella promessa è più importante del trovare il tizio che le ha lasciato la chiave o capire cosa quella chiave apra. Queste sono le metafore che strutturano la sua vita e le danno significato, aiutandola a capire se stessa. Laddove in Perfect Blue l’identità era essa stessa un’illusione, qui, piuttosto, l’identità è strutturata intorno a un’illusione. Il desiderio intorno al quale costruiamo la nostra identità ha ancora un elemento illusorio, non abbiamo davvero bisogno di arrivare a quella cosa che perseguiamo, abbiamo solo bisogno del perseguimento stesso. Invece di lamentarsi di quest’instabilità, Millennium Actress la celebra.

È da qui che Tokyo Godfathers prende avvio: se Millennium Actress ha mostrato che l’identità può essere appagante nonostante la sua natura illusoria, Tokyo Godfathers mostra come possiamo essere appagati dalla nostra identità proprio a causa della sua natura illusoria. Gli elementi performativi delle nostre identità ci permettono di dirottare il processo di identificazione. Questo approccio anticonformista all’identità solleva però nuove domande: se possiamo cambiare noi stessi come vogliamo, come lo facciamo nel modo più eticamente responsabile?

Tokyo Godfathers segue Gin, Hana e Miyuki, tre persone accomunate dalla mancanza di una casa. Si imbattono in una bambina abbandonata, la chiamano Kiyoko, e decidono di cercare i suoi genitori piuttosto che portarla alla polizia; ma dietro questo apparente altruismo c’è un chiaro desiderio di occuparsi di Kiyoko loro stessi. Si concedono la fantasia di essere una famiglia, e vengono (alla fine) ricompensati diventando legalmente gli eponimi Padrini di Tokyo. Diventano tali come risultato diretto dei loro comportamenti da padrini.    

Ma questo non vuol dire che chiunque può rapire un bambino e diventare genitore. C’è un parallelo diretto tra Gin, Hana e Miyuki da un lato e Sachiko, Yasuo e Kiyoko dall’altro: entrambi i trii consistono di due adulti che cercano di fare da genitori a un bambino nato in una famiglia diversa, ma i dettagli fanno tutta la differenza. Gin e Hana hanno accolto Miyuki quando è scappata di casa; che stia meglio o meno con loro che con i suoi veri genitori, Miyuki vuole restare con loro, e loro la accolgono. Sachiko aveva rapito Kiyoko. Sachiko e Yasuo sono Hana e Gin prima che questi abbiano imparato dai propri errori; sono immagini speculari con desideri simili ma moralità differenti. Yasuo e Gin hanno entrambi personalità dipendenti, entrambi hanno problemi con alcool e gioco d’azzardo, e mentre Gin non ha risolto tutto (passa gran parte del film inebriato), è consapevole quanto basta per rimproverare Yasuo per aver pensato che vincere la lotteria l’avrebbe resa felice.

Yasuo e Hana desiderano entrambi diventare madri, ma Hana non ruberebbe mai il figlio di qualcun altro. Hana è il centro tematico del film: ex drag queen e donna transgender, prende a cuore la malleabilità dell’identità. La frase che più ripete, “‘merda’ lo accetto pure, ma ‘Papi’ no!” non è una semplice e bellissima forma di auto-rappresentazione, ma è anche l’etica centrale del film: può sopportare le oscenità, può sopravvivere senza dimora, può resistere sotto gli insulti, ma il misgendering è oltre il limite. Il misgendering è un assalto alla sua identità, alla sua propria esistenza e alla sua essenza. Il misgendering inverte la tesi centrale di Kon: lui ci mostra come le nostre identità siano fittizie ma diventino reali attraverso la loro finzione esibita, ma questi attacchi dicono no, quella non è la tua vera identità, quella è solo una performance. Hana è centrale nel progetto di Kon perché confuta in maniera diretta le idee esposte in Perfect Blue. Si batte per se stessa contro le accuse che la sua identità sia solo una performance.

Paragonate Hana a Gin e Miyuki: Gin lamenta il fatto che non riescono a capire chi siano i genitori di Kiyoko perché non sono ”eroi di film d’azione”, perché non gli è stata assegnata l’identità corretta; Miyuki se n’è andata di casa ma si rifiuta di accettare la propria identità da senzatetto in fuga, rigettando l’identità che le era stata data dai propri genitori senza adottarne un’altra al suo posto.
Consapevolmente o meno, entrambi si appoggiano a scorciatoie verso l’identità piuttosto che addossarsi il duro lavoro fatto di performance e auto-rappresentazione. Devono imparare che anche se l’identità è fittizia ciò non significa che la si possa fingere.

Il climax del film riunisce Gin con la figlia da tempo estranea, anche lei chiamata Kiyoko, cosa strana dal momento che Gin aveva detto che lei era morta. Kiyoko svela che Gin ha anche mentito sulla sua carriera da ciclista, e che andava invece ai circuiti di corsa per giocare d’azzardo. Gin non è stato onesto circa il suo passato, ha persino inventato la morte di sua moglie e di sua figlia, per ottenere un po’ di compassione. Stava imbrogliando per avere una nuova identità. Questo è ciò che Gin ha in comune con Yasuo e Sachiko: anche loro si appoggiano a scorciatoie sull’identità, uno giocando alla lotteria nel tentativo di riparare la sua vita e l’altra rapendo un bambino per diventare madre.

La lezione più dura del film è impartita dal fidanzato/dottore di Kiyoko. “Posso curare la malattia,” dice, ma “lo stile di vita è qualcosa che devi aggiustarti da solo.” Questo fa male perché sembra che stia dando a Gin la colpa della sua condizione di senzatetto, ma non è questo lo stile di vita che Gin deve aggiustare. Ha bisogno di smettere di mentire su se stesso e prendersi la responsabilità della sua identità. Nessuno nasce eroe di film d’azione, tutto ciò che ci vuole è la volontà di fare la cosa giusta, ma ciò non significa che tu ti possa mostrare per ciò che non sei e diventare così, magicamente, qualsiasi cosa tu voglia essere. Non ci sono soluzioni facili, non puoi rapire un bambino per far funzionare una famiglia, non puoi vincere la lotteria per raddrizzare la tua vita; come Hana bisogna affrontare da sé il duro lavoro di portare la propria identità ad esistere.  

Ma che succede quando non sappiamo cosa dobbiamo recitare? Che succede quando non sappiamo chi vogliamo essere? Come dovremmo essere in grado di mettere in scena la nostra identità quando non sappiamo chi siamo? Per rispondere a queste domande, arriviamo finalmente a Paprika, il film di Satoshi Kon sulla psicoterapia.

Paprika si apre dentro il sogno del detective Toshimi Konakawa, un ispettore di polizia che soffre di un incubo ricorrente e che ha assunto i servizi di un terapeuta che utilizza una tecnologia da mercato nero all’avanguardia sull’analisi dei sogni. Dopo la loro prima seduta, collegano provvisoriamente il suo disagio psichico alla sua ricerca senza successo del colpevole nel suo ultimo caso di omicidio, ma in realtà è legato piuttosto alla sua ricerca senza successo di qualcun altro: se stesso. Konokawa è perso, proprio come Mima in Perfect Blue, quindi assolda la detective psicologica Paprika per scandagliare i suoi sogni e aiutarlo a ritrovarsi.

Ma anche Paprika sta avendo la sua crisi di identità. Vivendo di giorno una doppia vita come la rispettabile ricercatrice psichiatrica Atsuko Chiba, si ritrova combattuta tra la sicurezza della sua identità nel mondo reale e le emozioni della sua identità nel mondo onirico. Questo conflitto l’ha lasciata in uno stato di malessere emotivo; “ultimamente non riesce a vedere i suoi propri sogni”, è persa proprio come Konakawa. I sogni possono essere una strada verso l’autoconsapevolezza, ma anche la guardiana delle chiavi del mondo dei sogni ha difficoltà con la propria identità come tutti gli altri.

Il conflitto di Paprika ruota attorno al furto di uno di questi dispositivi per l’analisi dei sogni. Un terrorista psicologico usa questa tecnologia per attaccare le persone a livello della loro identità, introducendosi nei loro sogni. Qui troviamo un’eco del conflitto in Perfect Blue: le azioni del terrorista fanno sì che i sogni dei personaggi si fondano, minacciando di annegare l’io nel suo stesso chiasso psicologico. L’antagonista sta infliggendo la crisi d’identità di Mima a tutto il mondo.

Il terrorista si rivela essere il Dr. Seijiro Inui, il presidente dell’organizzazione che produce i dispositivi per l’analisi dei sogni. Lui e il suo assistente, il Dr. Morio Osanai, catturano Atsuko/Paprika e la imprigionano, ma è qui, nelle profondità più cupe del film, che troviamo finalmente l’inversione finale dell’ansia centrale in Perfect Blue, dell’ansia che ha dato origine a tutta questa investigazione della natura fittizia dell’identità. Osanai sostiene di amare Atsuko/Paprika, ma dice che ama la sua “vera” lei, la sua  “vera” identità come Atsuko nascosta sotto la sua “falsa” recita nei panni di Paprika. A questo punto possiamo già intuirlo, ma Osanai conferma i nostri sospetti quando commette una violenza psicosessuale estrema per estrarre questa “vera” Atsuko dalla “falsa” Paprika. La fantasia allettante di un’identità “reale” sotto la performance fittizia diventa qui un’esca per deliri romantici tossici e una scusa per un’oscena violenza sessuale. Dove Perfect Blue cercava le comodità dell’identità stabile, Paprika mostra il pericolo nascosto dietro quelle stesse comodità.

Konakawa si ritrova a rincorrere un tipo diverso di fantasia. Ha trascorso la propria infanzia all’ombra di un amico stretto; insieme avevano girato un film molto simile a Millennium Actress in cui Konakawa correva continuamente dietro al suo amico mentre i flashback si susseguivano. Come Chiyoko Fujiwara, Konakawa ha capito se stesso attraverso l’inseguimento di una misteriosa figura oscura, ma mentre la sua amicizia si deteriorava, perdeva qualcosa di sé. Sentiva che aveva tradito il suo amico, e nel farlo aveva tradito se stesso. Come Chiyoko, Konakawa ha capito se stesso attraverso il desiderio mal riposto, attraverso la ricerca di un significante vuoto, e così ha perso se stesso quando quella ricerca è scomparsa. Konakawa ha bisogno della pozione magica del jidaigeki di Chiyoko, ha bisogno che il suo desiderio sia reinstaurato.

Ma la differenza tra la risoluzione di Chiyoko e quella di Konakawa ci dice tutto ciò che dobbiamo sapere sulla strada che abbiamo percorso da Millennium Actress a ora. Konakawa si rende conto di aver perso se stesso quando racconta a Paprika che lui e il suo amico avevano girato un film insieme, lo capisce seduto in un cinema mentre spiega alcuni termini tecnici legati alla realizzazione di un film. Come i sogni, i film sono una proiezione fittizia di noi stessi, sono un mezzo per raccontarci di noi stessi, per esibire le nostre identità, e quindi per riuscire a comprenderci. “È una verità che viene dalla finzione,” l’io proiettato fittizio di Konakawa dice al suo “vero” io incarnato: il modo in cui comprendiamo noi stessi e le nostre identità è raccontando storie – o almeno questo è l’obiettivo.

Konakawa non capisce quel che il suo io-ombra gli dice. Risponde grattandosi confusamente la testa, “Sì certo, tutte le verità e la finzione.” Se mai raggiungeremo effettivamente la conoscenza di noi stessi è un’altra questione, ma come per la chiave di Millennium Actress, si tratta più del viaggio che della destinazione. Si tratta più dell’esibizione dell’identità che della vera e definitiva conoscenza di sé. Impariamo chi siamo raccontandolo ad altri, ma non arriviamo mai davvero fino in fondo. Io imparo chi sono raccontandolo a voi, scrivendo queste parole. Siamo chi siamo dicendolo ad altri. Io sono chi sono scrivendo. Ma questo non significa che possiamo fermarci. La formazione dell’identità non è qualcosa che accade prima o dopo la sua enunciazione. L’identità prende forma proprio e solo mentre la stiamo enunciando.

Quindi, “Chi è là?”

Diccelo, e può darsi che tu lo scopra da te.

 

Traduzione a cura di Francesca Astarita.