Cento anni di Lem – una storia di eccezionale normalità

Stanisław Lem è una creatura misteriosa.

È un autore letto, apprezzato e studiato in tutto il mondo, eppure attorno a lui c’è un’aura di vaghezza che sconfina spesso nella resa di fronte all’impossibilità di capirlo e affrontarlo davvero.

A logica, Lem non dovrebbe starci dentro il canone letterario europeo. È uno scrittore di fantascienza, ed è uno scrittore polacco. Due coordinate che già da sole sono di nicchia, figuriamoci quando si incrociano. Tuttavia, come il calabrone che secondo la fisica non dovrebbe volare eppure lo fa, Stanisław Lem si è ritagliato un posto tra i grandi narratori contemporanei e nessuno potrebbe davvero toglierlo da lì.

In Italia in particolare, molto del suo successo è dovuto alla fortuna del suo capolavoro, Solaris, continuamente ristampato nella sua confortante copertina blu Sellerio. 

Anche gli scettici verso la fantascienza riconoscono Lem tra le proprie letture. Forse lo fanno armandosi di un ventaglio di ma e nonostante, difendendosi dietro un muro di avversative e concessive, ma in fondo cedono le armi e smontano la trincea. 

C’è chi arriva a concedere a Lem il titolo di autore di romanzi filosofici dall’ambientazione curiosa. Uno che ha mosso grandi domande inevase e, per proprio ghiribizzo estetico, ha usato il cosmo come ornamento e contesto. Insomma, tutto quel perdere tempo dietro ad astronavi, scafandri, azoto e neutrini è un peccato veniale che la letteratura alta gli può perdonare.

È una visione assolutoria e convincente, apparentemente perfetta. Peccato che sia completamente sbagliata.

Il cosmo, le macchine e la scoperta scientifica per Lem sono innanzitutto un amore lungo tutto una vita, frutto di una curiosità avida e atavica. Sono la forma e la sostanza dei suoi capolavori, dove la capacità di guardare oltre le possibilità del mondo a sé contemporaneo gli ha permesso di creare scenari più grandi, dentro i quali cercare le risposte a quelle domande che nel suo presente non avevano spazio sufficiente per deflagrare.

Non esisterebbe Stanisław Lem senza fantascienza. Dopo una fase in cui lui stesso ha provato a distaccarsene, ha capito che il contributo alla letteratura e alla riflessione sulle domande irrisolte dell’umano lo avrebbe potuto dare al meglio proprio così. Attraverso quella vocazione del tutto estranea agli altri intellettuali del suo tempo, e al contempo condividendo con loro la storia polacca e i suoi fantasmi, la quotidianità polacca e le sue mancanze. 

Stanisław Lem è un caso di irripetibile normalità. A partire dal suo nome.

Comincia tutto il 12 settembre del 1921, quando il dottor Samuel Lehm si reca all’ufficio preposto della sua città a registrare l’atto di nascita di suo figlio. La città in questione è Leopoli, fino a pochi anni prima una provincia dell’impero asburgico, da poco uno dei fulcri della vita culturale ed economica della Polonia riunita dopo più di un secolo di spartizioni. 

Il dottor Lehm, che firma sempre più spesso Lem i suoi documenti, ha servito fino alla fine della grande guerra come medico dell’esercito imperiale, ma ha sempre parlato polacco e, a domanda diretta, si dichiarerebbe polacco. Alla riconquistata indipendenza della Polonia, nel 1918, ha deciso di scommettere sul futuro della nazione con il gesto più simbolico possibile e chiamare il suo primogenito con un nome polacco tradizionale: Stanisław. Non ce ne sono altri in famiglia, perché i Lehm/Lem sono ebrei, anche se assimilati e praticamente atei, e l’onomastica fino ad allora si è mantenuta su registri biblici. 

Per il giovane Stanisław, la discendenza ebraica non ha particolare significato, se non per il fatto che a scuola segue le lezioni di religione obbligatorie in un gruppo separato, e all’università deve fare i conti con la segregazione che la Polonia reazionaria del tempo impone agli studenti di origine ebraica. Lui vorrebbe studiare ingegneria, è affascinato dalla meccanica e dalle macchine e passa le giornate a smontare, montare e progettare. Al politecnico non riesce ad entrare, ma grazie ai contratti del padre riesce a iscriversi a medicina. 

Nell’ottobre del 1939 sarebbe pronto a iniziare il suo percorso accademico.

Sarebbe, appunto, se non fosse che il 1939 non è un anno qualsiasi per le sorti dell’Europa. Nel giro di due anni, a Leopoli piombano la Wehrmacht, poi l’Armata Rossa e poi di nuovo la Wehrmacht, questa seconda volta accompagnata da zelanti collaborazionisti ucraini. Va da sé che il giovane Stanisław viene escluso dall’università, ma è l’ultimo dei suoi problemi. 

Soltanto tre Lem sopravvivranno all’Olocausto. Sono proprio Stanisław e i suoi genitori. Munito di documenti falsi di cittadino armeno, un Lem poco più che ventenne scansa le fucilazioni e trova lavoro in uno sfascio dove smonta vecchi carri armati sovietici in cerca di pezzi riutilizzabili. E quando lo sfascio chiude, frequenta le biblioteche e legge disperatamente. Sembra una priorità strana, ma in fondo è il modo che ha di fuggire dalla realtà in cui ogni giorno uno dei suoi zii o cugini viene deportato o ucciso e i suoi genitori sono nascosti dentro uno scantinato. 

Che cosa lo porta a rischiare ogni giorno la vita per andare in biblioteca a leggere? Probabilmente la convinzione che il miglior modo di nascondersi è comportarsi con normalità. Inoltre, leggere è l’unica cosa che può fare per non cedere del tutto alla disperazione e al terrore. Quasi l’unica. Perché, oltre a leggere, inizia a scrivere. 

È proprio degli anni dell’occupazione il dattiloscritto del suo primo romanzo. Si chiama Człowiek z Marsa (L’uomo venuto da Marte, inedito in Italia) e sul momento resta chiuso in un cassetto, in attesa di sopravvivere e vedere tempi migliori. Come il titolo dichiara, è un romanzo di fantascienza. Quello di scrivere una storia totalmente di evasione sembra un riflesso naturale per un giovane imprigionato in un presente infernale e senza uscita, ma dove ha preso Lem l’idea per scrivere un romanzo del genere? In futuro, durante la sua carriera, dimostrerà di essere davvero avveniristico, a volte ai limiti dell’incredibile, ma non è questo il caso. 

Come scrive Wojciech Orliński, il più attendibile biografo di Lem, è verosimile che nelle biblioteche di Leopoli, riempite di libri in tedesco dalle forze occupanti, siano capitati dei romanzi americani che le case editrici del Reich fino al 1941 pubblicavano senza problemi. Tra quei romanzi, non è da escludere che ci fossero titoli di fantascienza, definizione inventata dall’editore americano Hugo Gernsback non molti anni prima e che si era espansa a macchia d’olio. Non ci sono prove certe alla base di tutto questo, ma nemmeno un Lem con la sfera di cristallo avrebbe potuto inventare di sana pianta un romanzo ambientato a New York e animato da un cyborg arrivato da Marte. La sua passione per le macchine e la scienza ha acceso la scintilla, la contingenza di miseria e paura ha fatto il resto. Così Lem fa il suo primo passo da autore di fantascienza. 

Finita la guerra, vivi per miracolo Stanisław e i suoi genitori lasciano Leopoli. Il vecchio dottor Lehm ha già perso una scommessa sulla longevità della Polonia rinata, non ne vuole perdere un’altra. La conferenza di Yalta ha annesso la regione di Leopoli all’Ucraina sovietica, i cittadini polacchi verranno presto sfollati. I Lem mangiano la foglia, anticipano l’esodo e scelgono una meta a loro congeniale. Sarà Cracovia.

L’antica capitale polacca è uscita dalla guerra in ginocchio, ma è ancora in piedi, a differenza di Varsavia che i nazisti hanno raso al suolo. In città manca ovunque il caffè, cose come zucchero e orologi sono roba da mercato nero, i ristoranti sono deserti, ma Cracovia resiste orgogliosa e rimette presto in moto i suoi circuiti culturali. Lem trova una piccola rivista di racconti che pubblica a puntate il suo L’uomo venuto da Marte, che aveva scritto durante l’occupazione, e intanto comincia a studiare medicina, riprendendo il filo che la guerra aveva spezzato. 

Forse l’euforia di essere sopravvissuto, forse una naturale disposizione d’animo, lo portano a incontrare professori e divulgatori importanti nel mondo universitario. Uno di loro addirittura gli offre un lavoro nella sua piccola rivista, un digest che riassume per il pubblico polacco le scoperte più interessanti della stampa scientifica americana che ancora circola in Polonia. Il giovane studente Stanisław Lem nella Polonia della fine degli anni ’40 ha insomma pubblicato il suo primo libro ed è al corrente del dibattito scientifico internazionale. Come se non bastasse, entra in contatto con il mondo letterario attraverso il settimanale cattolico Tygodnik powszechny e trova lì maestri di scrittura che saranno preziosi. In nuce, il futuro autore di Solaris è tutto qui, il più letterario tra i divulgatori scientifici, il più competente di scienza tra i letterati.

Tuttavia, dovrà ancora lavorare per affinare la penna e avere il riconoscimento che brama. Comincia a scrivere racconti, perlopiù dimenticabili, che pubblica su varie riviste. Con sprezzo del pericolo, mette in scena un piccolo dramma satirico che, potrebbe fargli meritare il gulag e invece gli fa incontrare Barbara, la futura signora Lem, spettatrice durante una delle rappresentazioni clandestine che Lem fa nella cucina di qualche amico interpretando tutti i ruoli.

Nello stesso periodo lavora a un’intera trilogia, realista e addirittura quasi documentaria, dove dei suoi riconoscibilissimi alter ego vivono la realtà dell’occupazione nazista e si interrogano sul ruolo del male. A differenza del dattiloscritto del dramma, nascosto così bene che è stato ritrovato solo dopo la sua morte, quelli dei romanzi della trilogia fanno il giro degli editori di Cracovia, che però per anni rispondono picche. 

Lo stalinismo culturale appena instaurato vuole prodotti aderenti al realismo socialista, eroi positivi che costruiscono l’avvenire e non certo cupe narrazioni di nazisti sadici. Ci sarà tempo più tardi per quella trilogia, dopo il disgelo, ma le reazioni del pubblico saranno decisamente poco entusiaste. In quel momento, intanto, Lem recepisce il messaggio e si ingegna. È scettico nei confronti del nuovo sistema, ma allo stesso tempo non è nemmeno un oppositore ortodosso. Inoltre, lo accompagna il suo senso pratico: i suoi genitori sono anziani e ancora sconvolti dall’orrore dell’Olocausto, non c’è speranza che contribuiscano al mantenimento della famiglia. Lui invece può fare qualcosa, e lo fa.

Quando il direttore dell’editore Czytelnik gli commissiona un libro di fantascienza aderente ai dettami di partito, lui firma in bianco, intasca l’anticipo e poi comincia a scrivere. Il risultato sarà Astronauci, in italiano noto come Il pianeta morto (Baldini&Castoldi 1963, trad. di Elena Strada Montiglio), un romanzo dove Lem sbriga le formalità politiche ambientando la trama in un futuro di socialismo perfetto e poi inscena una spedizione su Venere per scongiurare una guerra ai danni dell’umanità. Anche così brevemente riassunto, a occhi contemporanei è un romanzo non particolarmente attraente, ma sul momento è un grande successo di pubblico. Firmando l’anticipo per il secondo romanzo di questo tenore, Obłok Magellana (La nuvola di Magellano, inedito in Italia), Lem sceglie ufficialmente la sua strada. Sarà uno scrittore. Per poterlo fare a pieno titolo, lascia la facoltà di medicina a pochi esami dalla laurea. Sul suo documento d’identità di cittadino della repubblica popolare polacca ci sarà scritto Stanisław Lem, professione: scrittore.

I romanzi pubblicati in questa fase sono molto lontani dalla qualità speculativa e letteraria dei suoi futuri capolavori. Di certo scopre di avere due grandi talenti: una prolificità quasi meccanica che gli permette di corrispondere alle aspettative di tutte le commissioni ricevute, e un’inesauribile fonte di ironia. 

Quest’ultima la esprime soprattutto nei suoi racconti più allegorici, quelli dove il cosmo e i dibattiti su di esso gli servono anche per farsi beffe del mondo di burocrati ottusi con cui costantemente si confronta.
Nei racconti, Lem gioca, sperimenta, si mette in discussione, affronta i temi più diversi mettendo in scena personaggi e discussioni che variano dal filosofico allo sconclusionato, dalle riflessioni sulla cibernetica a quelle eterne sull’origine del male. I lettori italiani interessati possono trovare tutte le prose brevi di Lem raccolte nel tomo Universi, recentemente pubblicato da Mondadori con le traduzioni di Lorenzo Pompeo, Giulia Randone e Valentina Parisi.

Intanto, alla fine degli anni ’50, quando sembra più scoraggiato e meno convinto che mai, mette mano a due dei suoi più grandi capolavori. Uno è Ritorno dall’universo, appena ripubblicato in italiano da Sellerio nella traduzione di Pier Francesco Poli, e l’altro è naturalmente Solaris.

Entrambi questi romanzi nascono nella pressione di anticipi intascati e consegne non rispettate, scritti in sessioni frenetiche alla macchina da scrivere, nella casa lungamente attesa alla periferia di Cracovia o in montagna a Zakopane, e soprattutto sono ben diversi da quello che si prospettavano di essere.

Dalla corrispondenza di Lem, sappiamo che non era particolarmente soddisfatto dell’idea alla base di Ritorno dall’universo, un mondo nel quale l’aggressività è stata isolata ed eliminata tranne che in alcuni individui. Eppure quest’idea, unita all’intuizione di porre un uomo immune da questo trattamento a contatto con un ambiente che invece lo dà per scontato, apre le porte a un grandissimo romanzo speculativo.

Sappiamo che anche Solaris è diventato, durante la stesura, qualcosa d’altro rispetto alle aspettative iniziali. All’inizio, pare che Lem volesse esplorare ulteriormente l’irrisolvibile problema della comunicazione con l’Altro da sé. Solaris però va molto oltre. 

Nell’ambiente della letteratura fantastica oggi in Polonia, gli autori amano valutare sé stessi e i propri colleghi tramite quello che loro stessi chiamano “il rasoio di Lem”. Mutuando quello più famoso di Occam, Il rasoio di Lem consiste nel capire se si è davvero di fronte a un’opera di letteratura fantastica (che sia essa fantascienza o fantasy in senso ampio) o no e funziona in modo molto semplice: se prendiamo un romanzo fantastico, lo priviamo di tutti gli elementi di genere e continua ad avere senso, allora quella non è letteratura fantastica. Fa parte della letteratura fantastica un’opera che senza quell’elemento cessa di funzionare. 

Dunque, se Lem avesse concluso Solaris come un romanzo che affronta l’impossibilità di conoscere l’Altro, non avrebbe superato la prova del rasoio che porta il suo stesso nome. In quel caso Solaris sarebbe stato nient’altro che una riproposizione stellare di un archetipo vecchio quanto l’umanità. 

Quello che davvero diventa centrale in Solaris è il rapporto del protagonista, lo psicologo Kris Kelvin, con il suo passato e in particolare con Harey, la donna che ha amato e che a causa sua si è tolta la vita. Su Solaris, l’oceano pensante che avvolge il pianeta ripropone agli occhi del protagonista una Harey straordinariamente corporea e sincera. Rivedere Harey ogni giorno come se fosse ancora viva è una possibilità di redenzione o la condanna a vivere nel rimorso? 

Grazie alla possibilità di immaginare, in un futuro per lui verosimile, il contatto con entità aliene di questo tipo, Lem fa fare un passo avanti al Kurtz di Cuore di tenebra, e lo pone in una dimensione ancora più schiacciante. Il male che Kurtz immaginava esterno e che trova dentro di sé, Kris è costretto a vederlo con i suoi occhi, materializzato davanti a lui, e si trova perfino ad amarlo di un amore impossibile ed effimero, riprodotto da qualcosa che lui non può controllare. Una storia così non sarebbe mai stata possibile senza forzare un po’ le maglie dell’hic et nunc, senza aprirsi alle possibilità offerte dalla fantascienza.

Negli anni successivi, tra un disappunto e l’altro, sulle trasposizioni cinematografiche dei suoi romanzi e un acceso battibecco postale con Philip K. Dick, Lem scriverà altri romanzi di grandissimo livello come L’invincibile (in Italia con Sellerio, traduzione di Francesco Groggia) e il suo commiato narrativo Fiasko (in italiano, Il pianeta del silenzio, tradotto da Riccardo Valla per Mondadori). Tuttavia non si fa un torto a nessuno dicendo che il picco di Solaris non lo raggiungerà più.

Sono passati cento anni dalla nascita di Lem, quindici dalla sua morte, più di cinquanta dall’uscita dei suoi capolavori. Come valutarli e come leggerli adesso?

Per alcune sue caratteristiche intrinseche, la fantascienza è un genere che invecchia prima rispetto al romanzo borghese tradizionale. Se i personaggi di Balzac si spostano in carrozza o quelli di Gogol’ discutono di quanto faccia bene alla salute fumare il tabacco, tali elementi non disturbano la lettura né privano l’opera di valore. Chi scrive di fantascienza immaginando macchine e scenari, in più immaginando date avveniristiche in cui immaginare tutto questo, si espone al rischio di essere sbugiardato dal tempo. Senza contare poi tutta quella fantascienza satirica che, in Polonia come in Unione Sovietica, nasceva come reazione alla censura e ammiccava a simbologie oggi quasi incomprensibili. 

I libri di Lem sono esenti da questi problemi. Innanzitutto per il loro rigore scientifico. A parte i primi tentativi nel genere e altri titoli scritti palesemente per diletto, Lem è severissimo con sé stesso nel creare scenari sì fantascientifici ma probabili. Grazie all’abitudine di aggiornarsi sui progressi tecnologici, i mondi che prospetta nei suoi romanzi non sono una totale e strampalata fantasia, ma un aumento scalare e tutto sommato verosimile delle prospettive del suo tempo. Tenendo sempre a mente che erano anni in cui davvero sembrava che la conquista dello spazio fosse una priorità assoluta.

Su altri aspetti, meno terreni, i libri di Lem non sono invecchiati affatto. Le domande che pone e i temi che mette sul piatto sono quelli su cui la letteratura mondiale si interroga dai tempi di Omero e che lui declina nelle categorie che conosce: quella di sopravvissuto all’Olocausto, quella di cittadino di un Paese socialista e scalcagnato, quella di agnostico privato alla radice tanto del conforto dell’esistenza di Dio quanto di quello della fiducia nel materialismo dialettico. 

Stanisław Lem non è arrivato a scoprire l’origine del male e nemmeno ha rivelato se siamo in grado, come esseri umani, di conoscere davvero l’altro da noi senza rigettare su esso tutte le nostre proiezioni. Non si può biasimarlo certo per questo, visto che sono risposte che non ha ancora trovato nessuno.  

Probabilmente non si è biasimato nemmeno lui da solo, anche se una risposta o due lo avrebbero aiutato a vivere meglio le sue insonnie e le sue emicranie. Quello che Lem ha fatto, e per cui possiamo essergli grati, è l’avere aumentato lo spazio di applicazione delle domande dell’umano, ponendole su scenari che non avremmo immaginato e che pure ci sono preziosissimi. Per andare oltre e guardarci da lontano.