Mappe al contrario

Quando ho letto questo articolo di Veronica Galletta avevo cominciato il dottorato in Economia da un paio di mesi appena. Ora sono a metà del mio terzo anno, e ci penso ancora spesso. L’articolo si chiama “Scrivo per cercare un mio posto fuori dai numeri”. Galletta racconta la sua formazione scientifica, la laurea in ingegneria e il dottorato in Idraulica, e il suo primo “lavoro vero”: quando si rende conto che il cantiere della costruzione di un argine è completamente diverso dalla “perfezione asettica” del foglio su cui lei ha disegnato il progetto, capisce anche che i numeri sono stati una protezione, quasi una scusa per non sporcarsi le mani e non “aprirsi al mondo”. A questa rivelazione si accompagna un ritorno di fiamma: il suo amore per la lettura e i libri, la passione per la scrittura come metodo per rendere comprensibile il mondo. Quando ho letto questo articolo mi sarei voluta precipitare a comprare il suo primo romanzo (che all’epoca era anche l’unico) Le isole di Norman. Però non potevo, perché da un paio di mesi vivevo già negli Stati Uniti, dove ahimé la distribuzione delle case editrici indipendenti non arriva. Comunque, comprai il libro durante le mie vacanze di Natale in Italia e poi, come spesso accade, non l’ho letto per diversi mesi. L’ho ripreso, per caso, a maggio di quest’anno, e ne sono rimasta folgorata.

La protagonista, Elena, ha appena finito il liceo: sul finire dell’estate sta per iniziare l’università, alla Facoltà di Geologia a Siracusa, ed è spaventata all’idea di questo nuovo capitolo (“Ogni cosa che cambia le crea vertigine”). Vive nell’isola di Ortigia con i suoi genitori: il padre è un uomo taciturno, che si rifiuta di parlare di ogni cosa sia davvero importante, amaramente deluso da un sogno politico non realizzato; la madre fa e disfa pile di libri nella sua camera, da cui esce di rado. Un giorno, la madre di Elena sparisce. Nessuno, in quella casa, sembra essere un granché a parlare, e i libri sono un linguaggio alternativo, più accessibile ad Elena e sua madre (“Solo un piccolo, tranquillo mare di libri, lasciati là da chi ha mollato gli ormeggi”). La ragazza predispone quindi un piano, che a chi legge è poco intellegibile ma che lei sembra seguire con precisione impeccabile: munita di una mappa della sua isola, che in qualche modo ricalca la stanza della madre, deposita in posti improbabili alcuni libri, in modo da rispecchiare la posizione che avevano nelle pile che la madre aveva eretto in camera sua. 

Un elemento che percorre il romanzo in tutta la sua durata è il silenzio. In questo libro le persone si parlano poco (“Ecco cosa succede a coltivare il silenzio. Il silenzio poi ti si fa attorno, anche quando ci sarebbe bisogno di parole”), però, a loro modo, comunicano. Per esempio, tramite il cibo: ci sono diverse scene in cui Elena cucina (torta di pane con la madre, parmigiana di melanzane con il padre) e nei gesti rituali compiuti infinite volte esplora il confine fra l’intimità del momento e la distanza:

“Mamma”
“Sì?”
“Andiamo al mare una di queste mattine?”
La donna continua a sbriciolare il pane con le dita, senza rispondere.
“Alla Piattaforma del castoro”, insiste Elena. “Non c’è bisogno che ti fai il bagno, basta che vieni”.
Il rumore delle dita che mischiano gli ingredienti nella scodella con il latte, per quanto impercettibile, le sembra un frastuono. Elena ha paura di non sentire la risposta.

Scene come questa lasciano spazio a chi legge di riempire tutti i vuoti del dialogo, immaginando risposte e reazioni. In questo leggere questo libro, per me, è stata un’esperienza in un certo senso creativa: cosa mi frustra di questi silenzi? Cosa vorrei che si dicessero i personaggi? È un po’ come se la “perfezione asettica” di quello che avrei voluto succedesse ad Elena si scontrasse con la realtà del “cantiere” che invece è la sua vita come Galletta l’ha immaginata e raccontata.

I vagabondaggi della protagonista sono alternati a capitoli ambientati diversi anni prima, quando Elena, da bambina, ha subito un grave incidente. Inizialmente sappiamo solo che questo episodio coinvolge una pentola d’acqua bollente e delle brutte cicatrici, ma man mano che la narrazione procede la vicenda assume dei caratteri sinistri. Sia su quanto è capitato ad Elena bambina, che sulla ricerca della madre che compirà da giovane donna, il romanzo non fa davvero luce. Alle domande su dove si sia cacciata la madre si sovrappongono domande su cosa le sia davvero successo da piccola, ed Elena vaga, fra le strade e fra i ricordi, senza arrivare da nessuna parte.

La caratteristica principale di questo libro, infatti, è che non svela quasi nessuno dei misteri che mette sul tavolo: come la protagonista va in giro per le strada di Ortigia seguendo una mappa che vede solo lei, così la scrittura sembra vagare senza un ordine, a noi che non abbiamo la cartina. La stessa Elena, pur comportandosi come se avesse un piano ben preciso, gira in tondo più che verso una direzione, e spesso si perde, come se la mappa dell’isola che la guida fosse al contrario. Questo non mi ha disturbato per nulla: la maestria di Galletta mi ha permesso di fare pace molto presto col fatto che questo libro non mi avrebbe dato molte risposte.

Ripensando all’articolo di Galletta sulla sua formazione intellettuale, questa sembra essere una nota dissonante. Nel testo, l’autrice racconta con parole estatiche il momento in cui, durante l’esame di Scienza delle Costruzioni, il professore le chiese qualcosa che non aveva mai spiegato. Dopo qualche tempo passato a fissare la lavagna, la studentessa è “illuminata”:

È questione di un attimo, fra le idee ne emerge una e tu la afferri, per tirarla giù. Ho capito, ripetevo felice al professore, ho capito. Ho capito, e non era più una cosa che riguardava l’esame, il voto, il libretto. Era l’idea fra le mani, la voce che le aveva dato corpo. Avevo creato qualcosa che prima non esisteva.

Galletta, da studentessa di ingegneria, ama le risposte. Ancora di più, ama trovarle da sé, ama capire una cosa che nessuno le ha spiegato. Una mia versione di queste parole l’ho detta anche io, in uno di quei momenti che mi hanno portata a scegliere la strada che sto percorrendo. A differenza di Galletta, che racconta di un rapporto privilegiato con i numeri sin da piccola, io ho sempre creduto di “non essere portata per la matematica”. Ho scelto la facoltà di Economia perché mi sembrava l’unica accettabile, fra quelle che allora mi si diceva “mi avrebbero fatto trovare un lavoro”. Analisi 1 fu uno dei miei primi esami, e fu una scoperta davvero esaltante. Si segue un ordine preciso, si mantiene la concentrazione, ed ecco che tutto torna: un passaggio dopo l’altro, dall’enunciato del teorema a quel quadratino nero che segna la conclusione di una dimostrazione. È un piacere che mai avrei detto mi sarebbe appartenuto. Negli anni successivi ho fatto altri esami di matematica, Analisi Reale, Probabilità. “Fare economia” per me voleva dire astrarre talmente tanto dai comportamenti umani, fino a farli diventare dei simboli su un foglio. Citando ancora l’articolo di Galletta, è rassicurante “sapere che, pur nella sua spaventevole complessità, il mondo posso osservarlo da un solo particolare, posso riportarlo sulla carta e poi trasformarlo, modificarlo, combinarlo mille volte, per tornare a quella sensazione là.” La sensazione di aver capito, di aver “dimostrato” che ad A segue, e non può non seguire, B.

Fare ricerca vuol dire, nel suo senso più profondo “creare qualcosa che prima non esiste”, aggiungere un pezzetto in più, capire qualcosina di nuovo. Astraendo dalle dinamiche esasperanti che stanno dietro allo scrivere un paper, peggio ancora a pubblicarlo (per non parlare del farsi assumere da un’università una volta finito il dottorato), c’è qualcosa di rigenerante nell’utilizzare le proprie energie cercando la risposta ad una domanda che ci si è postə da solə. In fondo, non è molto diverso da quello che fa Elena nel romanzo: la sua è, letteralmente, una “ricerca”, in apparenza di sua madre, ma più in profondità anche di risposte a domande che non smettono di sgorgare. Depositare libri in vicoli vuoti secondo le indicazioni di una mappa che vedi solo tu, sperando così di capire che fine ha fatto tua madre e cosa ti è successo da bambina potrebbe essere la descrizione del lavoro di ricerca accademica, una metafora ardita ma accurata di quello che si prova durante il processo: dedicarsi ad una indagine senza nessuna garanzia di capire alcunché, addirittura senza nemmeno sapere se c’è qualcosa da capire, dividendo il compito in una serie di passaggi intermedi, ciascuno dei quali apparentemente irrilevante, scollegato dal presunto obiettivo finale.

Molto spesso, quando si inizia un progetto di ricerca, si approda su qualcosa di completamente inaspettato. Magari non si risponderà mai alla domanda che ci si era inizialmente posta, ma qualcosa si capisce comunque. Anche affidandosi a una mappa al contrario, magari si arriva da qualche parte. E così accade ad Elena nel romanzo, in un certo senso. Mentre esplora le sue memorie, e la sua isola, infatti, capirà sì qualcosa della sua storia familiare, ma soprattutto, credo, imparerà a prenderne le distanze, dandosi la possibilità di scrivere la sua, di storia.

Quando ho letto quell’articolo di Veronica Galletta non lo sapevo, ma durante il dottorato avrei dirottato i miei interessi verso altre branche della disciplina. Mi sono ritrovata, grazie ai corsi che ho fatto e alle persone con cui ho interagito, a pormi delle domande più calate nella concretezza delle interazioni economiche. Non più “qual è il giusto modello da adottare per rappresentare una decisione in stato di incertezza” ma “quali misure di sostegno alle donne lavoratrici sono più efficaci”. Non lo so se questo cambiamento di prospettiva sarà permanente, ma curiosamente sembra riflettere il desiderio che Galletta descrive nel suo pezzo: sporcarsi le mani, aprirsi al mondo, uscire dalle proprie stanze. La madre di Elena non esce mai dalla sua camera, lei invece esplora palmo a palmo la sua isola: anche questo è un “uscire” che rappresenta molto bene quanto la figlia sia diversa dalla madre. La insegue, ma nel farlo costruisce una distanza da lei: il fatto stesso di “uscire” a cercarla segnala una diversità profonda.

L’edizione di questo romanzo è stupenda, con pagine spesse che bisogna separare con un taglierino. Questo gesto, che richiede una certa dose di attenzione ma al contempo lascia spazio alla mente di vagare, si sposa bene con l’atmosfera di attesa, meditativa ma anche trepida, che l’autrice, complice il fascino di Ortiga, ha saputo creare. La prosa è talmente dolce ed evocativa da sembrare profumata, e si fa leggere con estrema facilità. Ho letto qualche recensione lamentare la vaghezza della narrazione, e la scrittura fatta di allusioni, ma a me è parsa un’ottima fusione fra mezzo e messaggio: certe volte farsi le domande è il punto, e viaggiare in cerchi invece che verso una meta precisa consente di focalizzare meglio l’attenzione sul viaggio; così la scrittura di Galletta evoca, ma non spiega, ed è fatta di rimandi più che di soluzioni.

Non sono nemmeno a metà del mio dottorato, e ho ovviamente molte più domande che risposte: mi chiedo se l’ambiente accademico faccia davvero per me, a cadenza mensile circa mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se avessi studiato letteratura invece che economia, più o meno ogni settimana mi chiedo se entro la fine del mio percorso avrò definito quantomeno la mia identità di economista, stabilendo un recinto per i miei interessi in cui la professione possa collocarmi. Mi sento anche un po’ frustrata da tutte queste domande: mi sento come Elena, che compie gesti inutili secondo uno schema capriccioso, per ottenere qualcosa che forse nemmeno vuole. Per questo il romanzo di Galletta mi è piaciuto tantissimo: mi ha fatto capire che di domande oziose avremo sempre bisogno, che il confine fra “afferrare” un concetto nuovo e non capire niente è sottile, che si fa sempre in tempo ad aggiungere un pezzo nuovo alla propria mappa e che, nei momenti di confusione, c’è sempre una pila di libri da cui pescare.