Spuntini – dicembre

RUBRICA DI VIAGGI, CHE NON PARLA DI METE TURISTICHE, MA DI TRIP LETTERARI, A RITMO DI CITAZIONI. LA PARTENZA È SEMPRE CERTA, LA META SCONOSCIUTA, IL TRAGITTO VA A ZIG ZAG DAL DIVANO ALLA LIBRERIA. LA SODDISFAZIONE È QUELLA CHE PUÒ DARE UNO SPUNTINO LONTANO DAI PASTI, QUANDO SI HA UN LANGUORINO, DA QUI IL TITOLO: SE FOSSE IL DIMINUTIVO DI SPUNTI, SAREBBE UNA SCELTA INFELICE, SE FOSSE LA STORIA DI TRE PUNTINI DI SOSPENSIONE INSEGUITI DALLA LETTERA S, CI VORREBBE GIANNI RODARI.

INGREDIENTI PER LO SPUNTINO DI OGGI:
PIA PERA – VOLTAIRE – EMILY DICKINSON

Ho intercettato una conversazione fra alcuni ragazzi seduti a un tavolino all’aperto; di questi tempi i bar usano tutto lo spazio esterno immaginabile per far posto ai clienti, così capita di passeggiare rasente le sedie e i discorsi.
Ognuno di loro buttava lì un numero superiore all’ottanta, neanche fosse la conta dei punti dopo un giro di carte; ho capito a cosa si stavano riferendo solo quando uno di loro ha detto: “Io oltre i novanta non voglio vivere…“. Stavano decidendo a che età morire e io non ho potuto far altro che sorridere, pensando a quel proverbio chassidico secondo cui, quando gli uomini fanno progetti, Dio ride.

Chissà quanti progetti aveva fatto Pia Pera per l’anno successivo, quello che per lei non è arrivato.
Leggevo sempre con piacere la sua rubrica su Gardenia, ho persino messo in pratica nell’orto alcuni suoi consigli e ho seguito l’avvicinarsi della malattia come fosse una vecchia conoscenza, mai frequentata, ma sempre stimata.
La frase che chiude L’orto di un perdigiorno ha risuonato in me come una dichiarazione di ricchezza interiore: “Ho la dispensa piena“. Allo stesso modo ho sempre sentito la chiusura del Candido di Voltaire come un’esortazione alla ricerca interiore: “Bisogna coltivare il proprio giardino“. Ciò mi è bastato per nutrire verso entrambi una pretesa di ricerca spirituale.

Ecco perché mi è dispiaciuto trovare il pensiero di Voltaire irrimediabilmente lontano da Dio e, allo stesso modo, avrei voluto che Pia Pera, nel libro che sapeva essere l’ultimo, Al giardino ancora non l’ho detto, indagasse il mistero del divino.
Ho provato a rileggerlo, perché sono passati cinque anni da quando è mancata e da quando Ponte alle Grazie ha stampato le osservazioni di un giardiniere davanti alla morte.
Ho ritrovato fra le pagine la grazia e la forza che mi avevano colpito alla prima lettura, ma non mi ero sbagliata: non c’era, nel suo avvicinamento all’ultima ora, alcun germoglio di spiritualità.
Non essendo la fede un dono, bensì una ricerca, avevo sperato che il miracolo della natura che trionfa nel proprio giardino, amplificato dal mistero di un corpo che appassisce, reso assoluto dalla consapevolezza della fine imminente, dessero un risultato diverso: se non un’epifania, almeno uno scatto verso la mistica del trapasso.

Ad ingannarmi, probabilmente, è stata la scelta del titolo del libro, tratto da una poesia di Emily Dickinson.
La poetessa di Amherst rintraccia nei minimi dettagli della natura una geografia celeste e ciò che non è visibile è lasciato alla visione onirica. Il suo giardino è insieme prigione e contrappunto dell’infinito.
Dall’osservazione del microcosmo la Dickinson traccia una mappa universale, il cui artefice è un Dio “orologiaio“, declamato per la maestria con cui assembla ciascun ingranaggio, accusato di essere “ladro“ – di tempo, di senso, di risposte –, ammirato per la melodia riscontrabile nelle voci del vento, dell’ape, del silenzio.
Il giardino ospita il sacro anche quanto l’ombra incombe; basta una creatura minuscola come un insetto (o come una parola) per stravolgere gli equilibri e le priorità, mentre il mondo sensibile svanisce.

In ogni libro cerco la conferma che ci sia luce appena varcata la soglia dell’enigma.
Mi rendo conto di pretendere tanto.