Nel 2001 la parola blog è entrata nel mio vocabolario grazie a un articolo letto per caso su una rivista qualunque. Internet era una novità vasta e sconosciuta, i link riportati su carta erano stampati conservando l’http:// e c’era necessità di spiegare tutto per tuttə partendo dalle basi.
Ricordo esattamente dov’ero: nel negozio dove lavorava mio padre, un pomeriggio dopo la scuola, a perder tempo prima di salire a casa a fare i compiti. La televisione era su MTV e probabilmente passava il video di una canzone a caso tra queste (da ascoltare qui per accompagnare la lettura).
“Il termine blog è la contrazione di web-log, ovvero «diario in rete»” dice oggi Wikipedia, e attraverso il filtro della nostalgia mi sembra quasi di ricordare le stesse parole nel testo di quell’articoletto. Non so quante pretese avesse, non mi sono mai chiesta se nella mente di chi lo ha scritto ci fosse la consapevolezza di star parlando di qualcosa che avrebbe in poco tempo fatto parte della vita intima e digitale di molti di noi, ma quelle parole mi colpirono.
Cos’era davvero un blog? Dove si trovava? Come potevo averne uno io? E soprattutto: a cosa serviva, realmente?
Ho sempre scritto tanto; da quando inventavo le filastrocche del serpente col cappello a ora, il mio modo di stare al mondo è sempre stato legato alla parola scritta. Quel giorno davanti all’articolo potevo chiedermi se davvero c’era bisogno di un’altra scusa, eppure non l’ho fatto. Invece sono tornata a casa, ho fatto merenda, e ho usato l’ora che mi era concessa per stare su internet a cercare informazioni.
Blog: spazi online in cui potersi raccontare protetti dall’anonimato. Per aprirne uno bastava una piattaforma che l’ospitasse, un indirizzo email e un nome da scegliere. Accessibile a chiunque avesse un modem, il blog era presentato come una possibilità creativa, catartica o divulgativa. Per me e la mia piccola vita di provincia però significava anche qualcos’altro: un varco comunicativo verso l’esterno, uno stargate fra la mia stanza e quella altrui.
Insomma, la possibilità concreta di scrivere per me, certo, ma parlando ad altrə.
In un post datato 20 Settembre 1995, Claudio Pinhanez scriveva:
Pensieri non detti, ecco a cosa è servito scrivere questo diario aperto. Parlando di sentimenti, idee, pensieri sensuali che non riuscivo ad affidare a un orecchio amico. Mi illudo che dare voce a queste idee qui le porti ad essere ascoltate, a toccare qualcuno velatamente nascosto nel cyberspazio. Come un lupo che ulula nel buio. Con tutta la solitudine del deserto. Nessuno risponde.
Ho scovato il suo Open Diary facendo ricerche per questa rubrica, e tra i post in cui racconta dei film che ha visto e delle città che ha visitato c’è questa semplice considerazione. Il suo è tra i primi esempi di blog, originariamente nato sul sito del Media Lab dell’MIT, e in quelle parole ho ritrovato ciò che cercavo anch’io nel 2001: un posto in cui parlare di ciò che non potevo esprimere altrove, con la segreta speranza che qualcuno, nascosto come me da qualche parte, ascoltasse.
Se questo suona familiare è perché probabilmente lo è: in tantə hanno fatto eco a questo pensiero rispondendo alla nostra call to action qualche tempo fa. Se si scrive sempre per qualcuno, come ci ha ricordato @lastanza, I primi post erano navi in bottiglia, come ha detto @controkarma.
Ed è vero, era così. Ma a differenza delle navi di Pinhanez, le nostre navigavano in un oceano un po’ più popolato.
Blogosfera
Non ricordo quale sia stato il mio primo post e non ho modo di verificarlo: il primissimo blog che aprii era su Excite, e non ho più né password né l’indirizzo email per recuperarla. Nella fase di ricerca per scrivere questa serie di articoli ho provato a ritrovare quel che potevo grazie a Wayback Machine, un archivio digitale che opera per salvaguardare nel tempo le pagine web e strumento nostalgico definitivo, ed è stata la cosa più simile al teletrasporto temporale che io abbia mai sperimentato.
Con un tuffo nostalgico che non ha forma sono caduta in un pozzo di ricordi che dal fondo mi ha restituito l’immagine di quel che ero vent’anni fa. L’homepage di quel vecchio blog è invecchiata male: sfondo nero e caratteri fuxia, una galleria di piccole immagini che rappresentavano i miei interessi, una foto di me non ancora maggiorenne e il mio nick animato che ruotava su se stesso con asse verticale. Un design bruttino che rivestiva qualcosa di immenso; scrivevo e mi svelavo sotto il potenziale sguardo di chiunque sapendo benissimo che, per la natura della vita virtuale dell’epoca, restavo al sicuro. In quegli archivi c’è la narrazione di una vita mentre stava accadendo, con flashback sul passato e speranze sul futuro, ed è stato il primo vero strumento di comunicazione verso l’esterno che ho preso in mano e modulato in base ai miei desideri.
Le navi in bottiglia erano già lì, pronte a navigare verso i miei simili, ma la corrente, il vento e l’arcipelago in cui trovare un porto sono arrivati solo un po’ dopo, sotto la forma delle due più grandi piattaforme di blog hosting italiane.
Splinder e Iobloggo: le penso ancora come due paesi diversi. Ognuna con le sue regole, la sua popolazione, ma con accordi diplomatici che permettevano traffico irregolare e sregolato tra i propri cittadini. Per qualche anno ci abbiamo tenuto casa, in quei paesi. Siamo statə vicinə, ci siamo fatti visita, ci siamo lettə e incontratə e vissutə e, quando sono arrivati i cellulari, ci siamo scambiatə i numeri.
Entrambe le piattaforme incoraggiavano lo scambio: i commenti erano aperti a tuttə, c’era un forum, nell’homepage erano visibili i post più rilevanti della giornata e esistevano anche le classifiche ufficiali dei blog più aggiornati o commentati. Improvvisamente l’aspetto comunitario è diventato importante quanto la scrittura, e sono iniziati a nascere i legami. Si è iniziato a creare proprio ciò che Ocrampal (Marco Palombi, tra i fondatori di Splinder) si augurava nel post The Lonely Net (aprile 2001) con la frase Let’s make the Net a less lonely experience.
Io passavo ore a preparare ogni post prima di collegarmi e inviarlo. Tutto era spontaneo, ma la cura che mettevo nel presentarlo, nel scegliere un’immagine, nel riflettere su un titolo o anche solo nel cercare di mantenere uno stile coerente (non usavo le maiuscole: non so più perché, ma non le usavo mai) mi obbligava anche a pensare a ciò che stavo dicendo. Non c’era nulla di molto profondo, in quei post: il mio blog era un aggiornamento continuo di banalità post-adolescenziali, di scoperte fuori dalla mia piccola bolla, di esperienze da giovane adulta universitaria e di amori struggenti; era egoriferito ed egocentrico. Scrivevo di me e mi esponevo, ma sempre tenendo in mente che quel che veniva pubblicato in qualche modo era uno specchio di me che presentavo a una comunità di cui sentivo – desideravo – di far parte.
Parlavo con chi non avevo nulla in comune perché mi insegnavano cose nuove, e trovavo chi era simile a me nei modi più casuali.
Le relazioni che si creavano in quelle community tra chi scriveva e chi leggeva mantenevano un equilibrio in cui non si era mai troppo voyeur e mai troppo esibizionisti, e il riconoscersi nelle parole di qualcun altrə era una sorpresa preziosa da scovare. In un faccia a faccia privato tra due schermi si apriva un canale di comunicazione; al centro, un interesse sincero e incontaminato.
Tutte le nostre navi in bottiglia a metà degli duemila divennero delle flotte che condividevano lo stesso mare: la blogosfera anonima, anarchica e autogestita, ce l’ha descritta @psikosomatica. Un organismo che si muoveva in maniera indipendente in mille direzioni, in cui esistevano di certo conflitti e alleanze ma che, per l’architettura di quel mondo, venivano percepiti senza immediata aggressività. Se avevi un blog ci mettevi la faccia: eri anonimo rispetto al mondo esterno, ma lì dentro non eri solo un nickname. Ci si comportava in modo corretto, perché non c’erano feed o timeline che facessero sparire le parole, inghiottite tra la folla. Così come c’era la sicurezza di poter parlare nel proprio spazio in modo libero, c’era anche la consapevolezza di contribuire in qualche modo a un ecosistema sociale più complesso.
Si scrive sempre per qualcuno. E qualcuno finirà prima o poi per leggere.
La comunità su cui la blogosfera italiana era fondata ha contribuito anche a normalizzare l’incontro tra la vita reale e il virtuale; poco alla volta avere di fronte una persona di cui non ci conosceva il nome vero o la faccia diventava secondario, perché attraverso ciò che scriveva ci pareva quasi di conoscerla.
Quando ho incontrato per la prima volta un’amica di blog avevo forse diciannove anni. Andai a Roma da lei, per Capodanno. Mia madre si spese in mille raccomandazioni, insistendo che andassi con la mia migliore amica perché non si sa mai, che ne sai se è chi dice di essere?
Regnava un paradosso strano nelle nostre vite: la diffidenza verso la novità di internet e ciò che poteva nascondere coabitava con l’ingenuità con cui ci esponevamo, incomprensibile per gli adulti nella nostra vita. Potevamo essere chiunque dietro il nostro nickname, e questa era la meraviglia: per la maggior parte di noi questa sicurezza ci rendeva in grado di essere noi stessə.
Sono sopravvissuta a quel viaggio a Roma a Capodanno. La mia amica blogger l’ho incontrata: era chi diceva di essere e anche molto di più. Ci siamo riviste più volte negli anni, è una persona a cui voglio bene e che, anche se distante, è ancora nella mia vita. E come lei ce ne sono state altre che si sono aggiunte negli anni.
In quelle community ho creato relazioni che continuano nel mio presente da adulta: blogger di cui leggevo le avventure sentendole simili in tutto tranne la geografia (perché c’era chi scriveva da Roma, chi da Milano, chi da Palermo, posti così lontani dalla mia quotidianità di paesino napoletano che mi sembravano esotici), amicizie che si sono solidificate attraverso il tempo e l’avvento dei social. Mi è capitato di incontrare un amore, pure, e anche persone che non ho mai più visto né cercato.
Il fatto stesso che io stia qui a scrivere su Supplemento lo devo a quel vecchio blog e alle amicizie che mi ha portato.
In tantə ci hanno fatto sapere che in quelle community hanno trovato l’amore di una vita, unə amicə, una famiglia, e anche ə testimonə al loro matrimonio. Alcunə hanno iniziato da un blog per farne una carriera, altrə no, e come me ci sono quellə che continuano a trovare spazi in cui scrivere perché scrivere fa parte del loro modo di stare al mondo.
Oggi Splinder e iobloggo non esistono più. Il primo ha chiuso quasi esattamente 10 anni fa (il 31 gennaio 2012) e del secondo non c’è più traccia; su wikipedia si legge solo che è scomparso.
Cosa significa questo? La comunità da blogosfera è quindi estinta? È parte di un mondo rimasto nel passato, ci ha dato ciò che poteva e lì deve rimanere?
Dal momento in cui Facebook è apparso sulla scena il nostro modo di presentarci online è cambiato. Poco alla volta abbiamo abbandonato l’anonimato e, con questo, la nostra esposizione al pubblico è mutata. Ora ci mettiamo la nostra vera faccia, i nostri veri nomi, e così facendo abbiamo perso quel velo così conveniente che ci permetteva di essere noi stessi; quando non lo facciamo riusciamo forse a mostrarci più fragili, ma è un atto sovversivo consapevole della fragilità della bolla e della possibilità di essere attaccati facilmente, non più protetti da un sentimento di appartenenza a qualcosa che ci accomunava. L’anonimato mi sembra più pericoloso di vent’anni fa, e senza dubbio questo è dovuto in parte al modo in cui i social spingono a una comunicazione d’impulso e sensazionalismo piuttosto che alla riflessione.
La differenza più grande che noto è che il desiderio di aggregazione sembra oggi essere stato sostituito dal desiderio di consenso. La tendenza è portare avanti una narrazione che porti verso di noi persone che possano ritrovarsi in quel che raccontiamo e alimentare il nostro seguito, mentre prima eravamo forse più ingenui: mettevamo in piazza la nostra verità e se qualcuno la trovava tanto meglio, ma se non succedeva ci bastava averla espressa. In una piattaforma in cui più o meno tuttə si conoscevano di vista e in cui avevamo la reputazione del nostro intimo pensiero da difendere il bullismo era quasi inesistente, e non è un caso che doxing (l’atto di esporre informazioni personali e private online) e brigading (attacchi coordinati e di massa perpetrati online verso un obiettivo comune) siano dei comportamenti online, di massa, che ritroviamo oggi ma che allora erano quasi inesistenti.
Quindi sì, i primi post erano navi in bottiglia senza bussola o timone; scrivevamo perché avevamo qualcosa da dire e speravamo in qualcuno che ascoltasse. Il chi, come e quando erano variabili dettate dalla corrente nel bacino della blogosfera, ma c’era una certezza che oggi non abbiamo più: chiunque avesse trovato la nostra piccola nave ne avrebbe avuto cura e forse, dopo qualche giorno, ci avrebbe anche affidato la sua.
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