Questo mondo è molto semplice. È fatto così.
Così inizia il primo volume della trilogia di Maria Gaia Belli, con cui non nascondo di avere stretto amicizia anni fa, fra i banchi dell’Università di Bologna, nei vicoli bagnati di pioggia attorno al 32 o al 38 di Via Zamboni, in piedi con il giaccone addosso in una qualche libreria dell’usato, o con la schiena contro il muro di un’aula troppo stretta mentre la voce forte di un professore che non c’è più ci leggeva Gadda da cima a fondo.
Non nascondo nemmeno il mio legame con questo “mondo molto semplice”, a cui si riferisce la prima riga del suo romanzo d’esordio, un mondo di cui Maria Gaia mi ha parlato per la prima volta diversi anni fa. Dalla prima volta in cui ho letto un suo racconto (in cui, se non ricordo male, un cetaceo cadeva dal cielo in mezzo a una città) ho pensato che avrei voluto leggerla e leggerla ancora.
A quanto pare sono stata accontentata.
Diciamo subito che L’anno del ferro è il primo di tre, il volume uno di una trilogia che porterà avanti la storia di Kam, Luk e Key.
In questo mondo molto semplice, introdotto già dalla prima riga del romanzo e rappresentato in una cartina ad apertura del libro, a sud ci sono il mare e i paesini costieri, con abitanti dalla pelle scura e scottata dal sole, al centro la Regione che ospita la città P., grande quanto la Regione intera. A est invece c’è la città di V., “vecchia, quindi bella e povera”, e “A nord c’è il Nord. Il Nord è grande, è freddo, e si chiama Nord.” Infine, a separare il Nord dal resto del mondo troviamo la dorsale, una catena montuosa ricoperta da boschi e popolata per lo più da animali, estesa quanto lo è il mondo stesso. Al centro della dorsale, si trova l’Accademia, luogo di addestramento dei futuri soldati e dei draghi da corsa, circondata da alte mura costantemente sotto sorveglianza. In Accademia ci si prepara a combattere, gli allievi e le allieve seguono una routine rigidamente scandita, dove alle lezioni si alternano allenamenti fisici molto intensi.
Ognuno di questi luoghi ha identità, tradizioni, culture e lingue differenti. Modernità e antichità si incontrano, in un’originale commistione di elementi che accosta automobili e tecnologie recenti alla caccia con arco e frecce, e che descrive il grande divario sociale fra gli abitanti delle varie zone.
La trama è narrata in ordine cronologico e di conseguenza le tre parti seguono la crescita anagrafica dei personaggi. In L’anno del ferro, Luk, Key e Kam ci vengono descritti bambini e poi adolescenti; all’età di sedici anni possono infatti finalmente fare il loro ingresso in Accademia, luogo cruciale e punto di congiunzione delle loro storie.
Ciò che più amo della scrittura di Maria Gaia è la lama che emerge dai suoi periodi, specialmente quando il mondo che si racconta è filtrato dallo sguardo di Kami.
Per lavarmi vado al secondo fiume, che è il più grande. In mezzo al bosco si ferma, poi dove il bosco fa uno scalino, riparte. Ci sono intorno canne verdi, piante alte di lavanda. Rane mai più veloci di me. Mi spoglio nuda e mi butto in acqua tutta insieme. Faccio avanti e indietro perché fa freddo, ma freddo freddo e se mi tocco le guance non le sento. Dentro l’acqua, sotto l’acqua, è più caldo. Galleggio a pancia in su, nell’unico punto dove arriva il sole. Dagli alberi scende una polvere d’argento.
Restare a galleggiare nell’acqua ghiacciata, sotto la polvere d’argento. Questo è ciò che in primo luogo mi spingerebbe a volermi impossessare del suo libro se me lo trovassi davanti, senza saperne niente, sullo scaffale di una libreria.
Kam ti entra sotto la pelle, come un bruciore, un livido. Sei con lei, con il Generale che l’ha comprata da piccola, nei boschi sulla Dorsale, e senti freddo per i suoi vestiti inadatti, senti fame, tocchi il terreno umido sotto le sue gambe, sei con l’abbaiare del cane, l’odore degli abeti.
Nessuno riesce a prendermi, quando sono in cielo.
È una delle frasi che la descrive meglio perché volando sulla schiena di un drago Kam si libera dal mondo, si alza sulle teste di chi le parla o le si avvicina troppo. Forse volando cerca anche la risposta alle due grandi domande che rimangono accese sotto la sua storia: chi sono io e da dove vengo?
La prima volta che dà un nome a se stessa, “«Kami» inventò.” , è proprio per rispondere alle domande dell’Accademia. Molto su di lei rimane da scoprire nei prossimi volumi, e uno spiraglio sulla possibilità di riallacciare presente e futuro si apre alla fine di questo, nella sezione che si intitola “Quindici anni prima della guerra”.
Ero a giù nel viale dietro al camposanto, a guardare le macchine che corrono. Ci vanno a tirare a gara con le tavole, e di notte con le macchine. Se ci avessi qualcosa da scommettere, magari. Magari una macchina. Gialla la voglio. Coi fari rossi.
Questo è invece il mondo di Luk, che vive in un quartiere in cui non si è mai del tutto al sicuro, tanto meno se tua madre è sempre fuori casa per lavoro, devi occuparti di tua sorella piccola e tuo padre è un tipo pericoloso. Luk cresce arrangiandosi, fingendo di essere più grande di quello che è, aspettando il momento in cui la sua vita cambierà, in cui potrà riscattarsi, sognando l’Accademia.
Sulle pubblicità che davano a scuola per chiedere l’arruolamento, l’Accademia pareva bella colorata. C’erano le foto con i ragazzini in divisa, i cavallini, i draghetti, i prati tagliati bene. I vetri con dietro le montagne. Le aule con i banchi di legno. Cosette un sacco sfiziose.
Arriviamo quindi a parlare di draghi. Ne La Dorsale, queste creature si emancipano dall’immaginario comune. È una una delle prime spie del fatto che siamo invitati ad aprirci a una nuova concezione del genere. L’autrice utilizza infatti il fantasy come uno strumento creativo per comprendere e comunicare la realtà, allontanandosi da ogni rigidità classificatoria. I draghi da trasporto “sono animali grossi e lenti, con schiene larghe come laghi”. Si tratta di animali domestici, tenuti nelle stalle, soggiogati alle necessità umane come lo sono i cani o i cavalli. La base, in sostanza, della loro sopravvivenza è il lavoro, così come per gli esseri umani.
Se Kam e Luk conoscono la necessità di arrangiarsi e faticare per sopravvivere, Key è l’unico che, all’inizio del primo volume, resta al di fuori di questa dinamica, quando vive ancora nella gabbia dorata della sua famiglia, nella città di V., sotto il controllo paterno.
Quando mio padre è con noi dobbiamo essere puntuali. È il caso di mettere la camicia.
Da ragazzo Key della sua vita non decide nulla, né come vestirsi, né cosa fare nel tempo libero, chi frequentare, cosa dire e nemmeno con chi andare a letto, visto che suo padre ha scelto per lui la cameriera Perlina. Il suo matrimonio è combinato con una delle sue cugine e l’unico spazio di libertà è quello della lettura e della scrittura. Ama il libro che sua madre non vuole regalargli perché piace troppo a lei, che è una donna. Scrive poesie d’amore a Perlina, che però quando le scopre decide di buttarle.
Quando rinuncia a tutto questo, Key deve cavarsela da solo, passa tra le mani di un gruppo di militari, viene curato in un piccolo ospedale e approda, infine, all’Accademia.
Alla base delle regole dell’Accademia c’è il lavoro, che è il fulcro della sua intera organizzazione. Sono gli studenti che si guadagnano il diritto di avere un posto in mensa e nei dormitori. Ciascuno secondo la propria inclinazione, stando di guardia sui confini della struttura, volando sui draghi da corsa o, come Key, attraverso il lavoro paziente e silenzioso dell’infermeria. Key è noncurante del fatto che il suo stipendio sia inferiore di quello del soldato, e anzi è perfino felice di emanciparsi dal suo status di originario, nella nuova comunità — quella dell’Accademia appunto — a cui ha scelto di appartenere.
Quando arriva in Accademia, Key ha molto in comune con Kam. Ha un aspetto che lo rende diverso dagli altri, da cui non viene capito e che non capisce. In più è ostacolato da una barriera linguistica, la lingua comune è per lui nuova e difficile da comprendere. Attraverso il suo disagio e senso di esclusione l’autrice riesce a sondare temi in stretto rapporto con il contemporaneo, come quelli dell’identità e del viaggio verso un luogo altro. Il taglio dei suoi lunghissimi capelli biondi è il gesto con cui Key recide anche l’ultimo legame con la sua famiglia e le sue origini.
Sono diversi i riferimenti letterari che possiamo trovare in quest’opera d’esordio che ha però la stabilità strutturale e la potenza narrativa di un’autrice artisticamente già matura. La Dorsale può farci pensare ai mondi diversi e selvaggi di Jack London, alla maniera di scrivere di Ágota Kristóf, a Philip Pullman per la coerenza e la complessità del worldbuilding. È un libro per chi cerca narrazioni nuove, potenti e lontane dai cliché, che rielabora alcuni scenari classici mescolandoli con il fantasy urbano e non solo. È una scrittura nuova, per chi vuole sentire l’aria della Dorsale sulla pelle e accarezzare i draghi da corsa nelle stalle, o per chi si incanta a guardare la polvere d’argento che scende dai boschi sui fiumi ghiacciati. Questa trilogia, di cui ora aspettiamo il secondo e terzo volume, ci invita a volare, cavalcando a pelo di drago, in un mondo all’apparenza lontano ma che in realtà ha molti legami con il nostro.