Da quando ho iniziato a riflettere sul mio rapporto con i social – riflessioni che hanno contribuito alle conversazioni che hanno fatto nascere Unopuntozero – per forza di cose ho dovuto anche iniziare ad analizzare come il mio modo di comunicare online è cambiato nel tempo, di pari passo all’evoluzione dell’esperienza virtuale stessa.
Ho iniziato a essere più consapevole di ciò che suscita in me il desiderio di condivisione, a chiedermi perché proprio quello e non qualcos’altro, ma soprattutto a rendermi conto dei meccanismi che si mettono in moto in sottofondo tra il momento in cui qualcosa mi colpisce e quello in cui diventa parte della mia presenza in rete; meccanismi che oggi lavorano a una velocità molto più elevata e che hanno in gran parte trasformato il tipo di gratificazione che viene dall’esperienza di comunicare online.
Nel momento in cui internet è diventato un accessorio mobile l’immediatezza ci è entrata in tasca. Siamo passatə dall’avere accesso al mondo solo dai muri di casa a non esserne separatə mai, nemmeno desiderandolo.
Io di questa immediatezza sento il peso, ora, e leggendo quel che ci avete scritto in tantə sono rassicurata nel non sentirmi sola.
Vent’anni fa se andava bene aggiornavo il blog due, tre volte a settimana. Pubblicare un post mi prendeva tempo, a volte per metterne giù uno potevo impiegare ore, e con un internet accessibile solo tra una telefonata e l’altra e spesso per un tempo limitato mi organizzavo per connettermi solo quando il post era pronto a essere pubblicato.
L’urgenza dell’espressione non era un requisito necessario per curare quello spazio in modo efficace, e i limiti tecnologici ci rendevano tuttə più o meno uguali da quel punto di vista.
Ho ritrovato lo stesso sentimento nel messaggio che ci ha scritto un po’ di tempo fa @liborioconca, che ha ricordato l’esperienza di essere fuorisede a Roma e di andare in un internet point perché in casa non c’era connessione. Un euro per mezz’ora e ti concentravi a tirarne fuori il più possibile: scrivi, pubblichi, leggi i commenti ai post passati, consulti i tuoi blog preferiti e vedi se fai in tempo a commentarli.
La fretta di usare il poco tempo che avevamo a disposizione era però equilibrata da tutto ciò che veniva prima: la riflessione su cosa dire, la costruzione di un pensiero che a volte prendeva ore e a volte giorni interi per prendere forma.
Io avevo un quaderno delle brutte copie. Mi appuntavo ciò che mi colpiva durante la giornata e l’elaboravo offline. Mi connettevo solo per caricarlo e magari cercare una foto da aggiungere al testo, e una volta fatto chiudevo la pagina e usavo il resto della mia ora su mIRC.
Aspettavo ma senza in realtà aspettarmi nulla: un parte di me sapeva benissimo che avrei avuto poche reazioni ai miei scritti, ma la parte che si nutriva di quel tipo di condivisione sperava e anticipava i pochi commenti che avrei ritrovato, forse, l’indomani.
I blog che seguivo con avidità non li leggevo online, non avevo abbastanza tempo. Per ognuno di quei post aprivo una pagina di Internet Explorer e la lasciavo caricata, pronta al consumo grazie alla cache: il mio computer si affaticava, reggeva a malapena e ancora mi sembra di sentire le ventole che si agitavano chiedendo pietà, ma in quelle pagine rimaste aperte io trovavo il tempo di assorbire tutto ciò che mi interessava nelle parole di chi lo viveva: C. che ammiravo da lontano per la sua vita cittadina, F. che scriveva di libri, L. che introduceva musica a me sconosciuta, M. che, al primo anno da fuorisede, raccontava la quotidianità lontano dalla periferia meridionale. Tutte quelle vite erano fonte d’interesse e curiosità, a volte di ispirazione. Il tempo necessario a leggerle incoraggiava in me un senso di immedesimazione: era come se fossi seduta in una stanza altrui per qualche ora.
C’erano post a cui ripensavo nel corso dei giorni finché non avevo l’occasione di commentare, e altri che rimanevano aperti e rivisitati a lungo nel browser.
Rivisitare il passato con il filtro del presente non è sempre una cosa molto saggia da fare, ma in questo caso sento davvero che c’era un beneficio in quel modo di vivere la condivisione del mio mondo e di entrare in quello degli altri, che oggi non ritrovo più.
Ho sempre considerato il mio avere un blog come una scusa per mettermi allo scoperto, e nel farlo facevo estrema attenzione all’immagine che volevo dare di me. Quella riflessione continua sul come dire le cose, come formularle, che stile adottare, mi aiutava senza dubbio a essere più consapevole del messaggio che inviavo.
Le maiuscole le uso oppure no? Separo i paragrafi da uno spazio o voglio un muro di testo senza respiro? Che canzone scelgo da aggiungere al post per riassumere il mio mood? E il titolo? Che titolo metto?
Eravamo ciò che scrivevamo. Eravamo anche il come.
Ma c’era pure un’altra cosa, una libertà che non percepivo ancora perché di fatto molte cose le rimpiangi quando non le hai già più: in quegli anni io non sentivo la pressione dello stare sempre sul pezzo che ho ora, sempre all’erta. Non avevo il bisogno di rilevanza che oggi mi sembra permeare tutto ciò che leggo e mio malgrado finisce anche in ciò che scrivo.
Il blog era casa mia e a casa mia ci venivano solo lə amicə che sapevano a che citofono suonare. Le mie parole restavano in salotto e non avevano bisogno di rispecchiare sempre ciò che stava accadendo fuori perché avessero un senso: per me che le scrivevo e per ə pochə che leggevano la contestualizzazione era data da ciò che avevo costruito nelle puntate precedenti. Avevamo tuttə la possibilità di creare la nostra storiografia, di coltivare le nostre unicità senza bisogno di un filo conduttore esterno per legittimare i nostri pensieri come degni di essere ascoltati.
@adrianaaaaaaaa ci ha condiviso una metafora:
Sui social sembra di stare in un bar affollato e se vuoi dire qualcosa devi dirlo in poche battute, nel caos generale, cercando di “blend in”, come dicono gli anglofoni, di sembrare una dei loro, soprattutto dal punto di vista linguistico.
È un’immagine che mi ha trovato piuttosto d’accordo.
Sui social per forza di cose si parla e ci si parla addosso usando un codice più o meno comune per farsi capire, ci sono quellə al bancone con la voce grossa che attira gente, ci sono quellə di passaggio che prendono da bere e si spostano un po’ qui e un po’ lì in base alle conversazioni che trovano, ci sono ə quietə che guardano il mondo passare, ə divulgatorə, o anche quellə (e mi metto tra questə) che si sentono più a proprio agio seduti a un tavolino in cui parlano un po’ da solə e un po’ con qualcun altrə, cercando di tessere legami e concetti riassunti in interazioni da 140 caratteri. All’interno, il bar è diviso in zone aggregative identificate da hashtag e argomenti polarizzanti, spesso conflittuali, e ogni tanto si sentono le voci alzarsi, si vedono sedie volare, qualcuno sbatte la porta uscendo e giurando di non tornare mai più. Ogni tanto viene appeso il ritratto di un ospite indesideratə da commentare in piazza; quel ritratto sarà generalmente rimpiazzato in poco tempo in cicliche rotazioni del bersaglio. Non è richiesto ma è caldamente consigliato che si stia dalla parte giusta della bolla del bancone.
Non sentire la necessità di stare sul pezzo mi sembra ora un pensiero così liberatorio che non sono più sicura che sia solo la nostalgia a parlare, piuttosto un vero e proprio desiderio di riconquistare un ritmo d’espressione alimentato dall’interno e non dall’esterno.
Eppure sento in modo a volte quasi doloroso che se assecondassi sempre e solo i miei tempi perderei la possibilità di vivere davvero nel flusso della vita online odierna, o quantomeno questo diventerebbe un viaggio solitario e ricco di monologhi piuttosto che di scambi.
Sarei più protetta, sicuramente, in quel viaggio solitario.
Un’altra cosa di cui sento una mancanza forte è proprio quel sistema di sicurezza che si alimentava in un modo tutto particolare: poiché ciascuno di noi prendeva così tanto tempo e riflessione a esporre i propri pensieri questi diventavano una vera e propria estensione della nostra identità, e come tale la costruivamo con cura e con la stessa cura trattavamo quella deglə altrə.
@marziodia l’ha riassunta così:
Ho l’impressione che il cyberbullismo non fosse poi tanto radicato – cosa che mi ha stupito in positivo dato che molti di noi scoprivano molto le proprie vulnerabilità. Adesso non mi esporrei mai così tanto (sui social ho finito per censurarmi tantissimo).
Il 4G è diventato ormai il nostro sesto senso attraverso il quale filtriamo la realtà per qualche secondo prima di postarla, e con la stessa rapidità con cui affermiamo qualcosa e l’esponiamo sui nostri social arriviamo ad attaccare chi non la pensa in modo uguale o a cambiare posizione noi stessi, perché questo ci è permesso dalla velocità alla quale le nostre affermazioni spariscono dal feed (e dalla memoria) di chi ci segue.
Se prima era utile avere un quaderno in cui metter giù la brutta copia del testo che volevamo pubblicare nel nostro blog, ora questa necessità non solo non esiste ma è stata soppiantata da qualcosa di simile e orrendamente opposto: le brutte copie sono i nostri tweet e status passati. Sono quelli invecchiati male o che non hanno avuto abbastanza cuori, e in quanto tali possono essere lasciati da parte in favore di una versione migliore, più bella, che risuoni di più, che sia più rilevante.
Quel che sento ci nutriva prima era la condivisione delle idee nella speranza di attrarre le similitudini d’animo altrui. Quel che ho l’impressione di vedere oggi è l’esibizione di sfumature di pensieri nell’esigenza di attrarre consensi.
Non si parla più di community ma di bolle. L’esperienza virtuale non è più comunitaria ma individuale, così come ho difficoltà a definirla identitaria come poteva sembrarlo nei primi anni perché cambiare identità, tema, pensiero (o più crudamente riciclarsi) per ciò che va per la maggiore è più semplice e appagante.
Quando Instagram è arrivato nelle nostre vite c’era un modo di dire che ancora mi perseguita, tanto si era insinuato nella mia testa allora: pic or it didn’t happen. Se di un’esperienza di cui parlavi non avevi una fotografia, allora quell’esperienza poteva non essere mai accaduta. Perdeva valore e esistenza stessa.
Nel giro di qualche anno siamo passatə dal raccontare le nostre esperienze come riflessioni a posteriori a pubblicarle mentre accadevano giustificandole con foto perché sembrassero ancor di più la verità (ma anche lì: quand’è che abbiamo iniziato a dubitarne?), e ora abbiamo rifatto tutto il giro ché con un paio di foto e frasi fatte riusciamo non solo a reinventare la nostra realtà ma a manipolarla, dandoci quel senso di gratificazione immediata che viene dall’evocare un’azione, un impegno, un attivismo e viverlo come se l’avessimo messo già in pratica in qualche secondo (spoiler: non l’abbiamo fatto, ne abbiamo solo parlato, ma in quantə lo verranno a sapere?).
Ho iniziato a fare un esercizio, per questo: quando sento il desiderio di esprimermi sui social spesso compongo il messaggio e lo lascio in bozze per mezz’ora. Una volta su due quando lo riapro ho già cambiato idea e lo cancello. Resistere alla tentazione da fast communication non è dissimile dal cercare di ricreare un guardaroba che mi rappresenti senza la facilità di cambiare stile ogni giorno solo perché ho la possibilità di farlo.
Ammetto che mi faccio così tante domande perché non mi va benissimo l’esperienza social contemporanea: ne sono contrariata e spesso infastidita. Forse sto crescendo, forse sto invecchiando, forse sono solo un po’ stanca e quando si è stanchi si è prede facili per tristezze e nostalgie. Forse sto passando di moda, non sono più nel target di riferimento. Può essere. Ma penso anche che questo viaggio nostalgico ora mi stia aiutando a capire quanto ci sia da apprezzare nell’aver potuto muovere i primi passi virtuali in ambienti che crescevano letteralmente con me. In un certo senso mi fa pensare che questo mi abbia dato gli strumenti per abituarmi alle cose coi miei tempi, di essere stata tenuta al sicuro dai limiti tecnologici dell’epoca rispetto a quel che credo sia l’esperienza di chi si è trovato online subito, dal momento in cui è arrivato al mondo, in un flusso che non rallenta mai e che è progettato per ingabbiare e sfruttare. (Sembro una che che inveisce contro l’elettricità e ripete a chiunque voglia ascoltarla che con le lampade a gas si viveva meglio. Un po’ di pazienza).
Il mondo dei blog forse ci ha dato il lusso di avere le rotelle per la bici, e quando oggi ho l’impressione di sbandare in mezzo al traffico schivando gente che segue altre traiettorie che mi sembrano oscure un po’ le rimpiango. Siamo fatti per evolvere, e così evolve anche la nostra comunicazione, ma il tempo dedicato a costruire qualcosa, a imparare a espormi mentre mettevo in sesto la mia piccola identità un post alla volta mi ha regalato un tipo di fondamenta a cui ancora cerco di aggrapparmi con ostinazione. Non dico che non siano adatte a quel che ho a disposizione ora – lo sono, si adattano pur ribellandosi – ma soffrono per la fretta a cui la vita virtuale attuale sembra averci abituato.
So che altrə la pensano come me perché lo vedo riflesso in piccoli atti di ribellione verso un sistema che non ci rappresenta.
Ho visto blog rinascere (io stessa ne ho riaperto uno) e prosperare, ho visto newsletter accumulare seguaci, entrambi slacciati da piattaforme comunitarie ma connessi ai social solo per farsi raggiungere altrove, in acque più pacate. Questə autorə provano a tenere vivo quel tipo di scrittura staccato dall’immediatezza e dall’urgenza, e riuscendoci alimentano poco a poco una comunità ibrida con un piede nel passato e uno nel presente.
Il bisogno di ritagliarsi uno spazio poco affollato in cui accordarsi il tempo necessario all’ispirazione (ma anche all’inspirazione, che male non fa) è ancora sentito, condiviso, condivisibile.
Questi articoli sono mossi dalla nostalgia, ma ci interessa il parere di chi quella nostalgia non la può avere: se hai vent’anni, se non ti riconosci nella generazione blog, se hai qualcosa da aggiungere sull’esperienza social scrivici qui: facciamo tesoro di ogni parola.