È possibile portare avanti un personale percorso di formazione mentre il mondo che conosciamo sta per finire? Si può creare qualcosa di buono quando tutto intorno c’è tensione e violenza?
Ruthie Fear, pubblicato da Black Coffee nella traduzione di Leonardo Taiuti, è il primo romanzo di Maxim Loskutoff, dopo la raccolta di racconti Come west and see, ancora inedita in Italia. La storia racconta la vita di Ruthie Fear sin dalla più tenera età, in un percorso che in un primo momento sembra di classica formazione – ma lo sarà solo parzialmente – fino a un epilogo inusuale che posiziona il romanzo a cavallo di più generi.
La bella copertina ideata da Costanza Ciattini ci aiuta a capire, se non chi sia la protagonista, almeno in quale paesaggio si muova: una terra naturale e selvatica – il Montana – in cui è significativa la presenza animale e vegetale. Al centro, un corpo femminile ha la testa di lupo. È Ruthie Fear? È questa la sua battaglia?
Capiamo presto che la Bitterroot Valley è una terra avvezza a morte e violenza: chiunque si dedica alla caccia sin dalla più giovane età, quasi mai rispettando le regole, e le ferite della storia sulla pelle dei nativi vivono ancora sulla pelle dei superstiti e nei racconti di maledizioni millenarie.
Una terra marchiata da sempre com’è marchiata la vita di Ruthie Fear.
Già la sua nascita coincide con un atto di violenza: suo padre, Rutherford, uccide in quell’anno l’ultimo lupo della valle. In una delle primissime scene l’animale è appeso con dei ganci al soffitto della rimessa.
Per vederlo i rancher e i turisti venivano addirittura da Ennis. Nei pressi della casa mobile dei Fear si radunavano gruppetti di gente che rideva, sputava e prendeva a calci la terra. Pagavano un dollaro per farsi fotografare. C’era chi metteva il braccio intorno al lupo e se la rideva. Altri fissavano l’obiettivo in silenzio. Ognuno di loro era più piccolo dell’animale.
Il lupo sarà trasformato in un tappeto su cui Ruthie dormirà per i primi quattro anni di vita.
Tutta l’infanzia di Ruthie va in scena in un ambiente brutale e maschile. Le uniche attività a cui Rutherford è interessato sono la caccia, la tassidermia e l’allevamento di coleotteri grazie al quale spolpa gli scheletri degli animali garantendosi discreti guadagni. L’uomo trabocca di rancore verso i nuovi ricchi che lentamente ma inesorabilmente si stanno appropriando della valle, costruendo e recintando. Esattamente come un tempo i bianchi avevano fatto con i nativi. Ma Rutherford non è in grado di cogliere le similitudini tra le ingiustizie subite o perpetrate: lo anima soltanto un senso di possesso per la terra in cui ha sempre vissuto – l’unica che conosca – e che, proprio per questo, pretende di utilizzare come e quando vuole.
È questo l’uomo a cui è affidata la formazione di Ruthie. Senza madre, Ruthie cresce tra cacciatori, ubriaconi, razzisti, vecchi molestatori, giovani donne che diventeranno mogli, giovani uomini che diventeranno come suo padre – sonnolenti e gonfi sul divano davanti alla tv. Rutherford non è capace di avvicinarsi alla figlia se non muovendosi lungo il proprio orizzonte, così il loro rapporto si costruisce esclusivamente su ciò che lui le insegna in fatto di fucili e proiettili.
È altissimo l’ostacolo davanti a cui Loskutoff mette la sua protagonista, cioè quello dell’identificazione. Ruthie non può immedesimarsi in nessuno. Trarre esempio da qualcosa è praticamente impossibile. Tuttavia in questo rapporto aspro e sgraziato, padre e figlia riescono a trovare equilibrio e reciproco rispetto: Rutherford si mostra capace di piccoli gesti di cura e i ricordi più teneri di Ruthie saranno proprio legati a quando il padre le insegnava a tenere il fucile sulla spalla.
C’è qualcosa di più grande però, qualcosa di migliore. Ruthie lo percepisce nel comportamento degli animali – che pure continua a cacciare – e, più ancora, in un senso di comunione con la natura, nella percezione della vastità dell’universo. Ruthie osserva i monti Sapphire, vorrebbe volare sui Sapphire, vorrebbe essere i Sapphire. Questo genere di pensiero ricorrente è l’unico che abbia l’effetto di calmarla, di allontanarla dal punto in cui è costretta a esistere. Ma il padre, la valle, la comunità: tutto nella via di Ruthie Fear ha una doppia faccia, e restituisce opposte sensazioni al tatto. Il mondo naturale non si sottrae a questo destino. Se è l’unica via di fuga, l’unico pensiero più nobile – è anche responsabile dell’apparizione di una creatura mostruosa che tormenterà Ruthie per tutta la vita.
La sera del ballo Ruthie prende l’auto e si allontana da quella che sta per diventare una rissa. Una scelta coraggiosa, tutto considerato. Ma la violenza decide di seguirla: finita in un negozio a comprare qualche snack, si trova coinvolta in una sparatoria e un ragazzo le muore tra le braccia. È il punto di rottura. Fugge a Las Vegas e l’occasione sembra lo step necessario per crescere, dar vita a un cambiamento, riformulare le priorità di una vita chiusa che non alletta per prospettive. Ma l’esperienza non dura che poche settimane: Loskutoff getta nuovamente la sua protagonista nella valle, con un bagaglio poco più pesante di quello che aveva portato via. L’evasione non riesce, la Bitterroot Valley la richiama indietro. L’evoluzione di Ruthie è continuamente ostacolata, gli strumenti per capire sé stessa e il mondo si dimostrano illusori non appena sono a portata di mano.
C’è una breve parentesi in cui sembra che Ruthie possa risolvere il problema di identificazione che l’affligge sin da bambina. Ormai trentenne, cameriera in un diner, inizia una relazione prima di amicizia e poi sentimentale con Jon Sitka, vecchia gloria del football ritiratosi nel Montana alla ricerca di una vita finalmente tranquilla. Sitka è completamente diverso dagli uomini della vita di Ruthie. Pacato, gentile, in armonia con quello che lo circonda, osserva il mondo con gli stessi occhi di Ruthie, affascinato e terrorizzato dalla bellezza della valle. L’autore descrive così il loro primo incontro al diner.
Abbraccio con un ampio gesto le montagne innevate. «Non ci posso credere» disse, «è meraviglioso». Lo stupore accentuava la ragnatela di rughe che aveva intorno agli occhi. Era da tanto che Ruthie non si stupiva della bellezza della valle. Quella sensazione la riportò all’infanzia. «Aspetti un paio di mesi, quando le foglie dei larici cambiano colore. Sembrano in fiamme».
«Potrei dover chiudere gli occhi.»
Ruthie sorrise. Più tardi si ritrovò a indugiare spesso nei pressi di quel tavolo, ansiosa di gettare un’altra occhiata alla vette e di raccontargli tutto.
Potrebbe trattarsi della salvezza: riconoscersi come davanti a uno specchio e avere perciò lo spazio – e il supporto – per diventare quello che si è. Ma anche questa esperienza sarà ambivalente per Ruthie. Sitka sparisce dopo un episodio violento privandola non tanto della possibilità di cambiare, quanto della speranza che sia possibile farlo.
Dunque, è impossibile un percorso di formazione mentre il mondo tutto intorno cambia? Per Ruthie sembra sia così. Loskutoff affida infatti la trasformazione più significativa a Rutherford, non a Ruthie. L’uomo, al volgere dei cinquant’anni, è molto diverso dall’uomo impulsivo e rozzo conosciuto nelle prime pagine del romanzo. Innamorato di una nuova compagna per la prima volta dopo la madre di Ruthie, circondato dagli amici di sempre, alla festa per il suo compleanno sembra pacificato con la sua realtà e con sé stesso, orgoglioso del piccolo bar casalingo che ha messo su. Il piccolo sogno di una vita che ha finalmente preso forma. Rutherford, a tentoni e pur con i suoi limiti, ha trovato il proprio posto nel mondo.
Ruthie sente la felicità del padre e in parte la condivide, ma non prova lo stesso senso di completezza, il suo percorso non l’ha portata alla pacificazione con le sue esperienze e con il mondo. Allontanatasi dalla festa – dalla felicità degli altri – incontrerà nuovamente la creatura mostruosa che aveva visto da bambina. L’elemento fantastico entra prepotente in una narrazione che si era mossa piuttosto tradizionalmente nei binari del realismo riuscendo a scuotere in maniera convincente le fasi finali della storia e creando un’interessante contaminazione.
Dito sul grilletto, nelle orecchie le parole del padre quand’era bambina: l’ultimo gesto di Ruthie – e poi a cascata di Rutherford e degli abitanti della valle intera – è ancora una volta violento e insensato e ci racconta di percorsi di crescita piccoli e limitati, il più delle volte inefficaci all’esterno.
Così il mondo e la valle crollano sotto gli occhi confusi dei responsabili del crollo stesso.
Ruthie Fear finisce per essere un romanzo di formazione mancata o tutt’al più parziale, crudo e schietto, che lascia pochissimo spazio alla consolazione. La spietatezza verso i suoi personaggi fa di Loskutoff un narratore forse non perfetto ma sicuramente coraggioso. L’inserimento dell’elemento fantastico a risolvere la storia può apparire inconsueto o bizzarro, ma credo sia efficace a destabilizzare il lettore esattamente quel tanto che serve affinché il messaggio passi e qualcosa resti. D’altra parte quella dell’assurdo, dell’incomprensibile, è forse l’unica scelta sensata dovendo parlare a chi, come noi, si trova nella stessa situazione di Ruthie Fear: vivere in un mondo che cambia e finisce, a confrontarsi con i drammi miseri e le scelte personali che un giorno sono tutto quello che conta e il giorno dopo vengono inghiottite dal nulla.