Questo è il corpo

All’alba il vapore viene su dai fossi, e l’aria della notte subtropicale si fa più torbida e densa e la luce si alza lunga su queste campagne, torbida e densa da farci rotolare giù dai letti, in piedi affannati a girare come in preda a presagi febbrili o ammattimento; accende le cicale impazzite ovunque, e i parrocchetti a miliardi sembrano in procinto di levarsi tutti insieme dalle fronde dove stanno nascosti e occupare il cielo con una nube verde. Così Ester dopo una notte insonne a sudare in branda gira rigira tra le lenzuola umide; tormentata, tormentata tutta notte trova in cucina il corpo immobile e nudo di Veronica, tagliato da una luce immatura.

L’incipit di Questo è il corpo. Rituale dei giorni nuovi ci immerge in una realtà vischiosa, oscura, “torbida e densa” come l’aria della notte subtropicale. Ancora una volta mi trovo a recensire il libro di una persona molto cara, Simone Marcelli Pitzalis, come Maria Gaia Belli miə compagnə di Università a Bologna, approdato a effequ con il suo esordio narrativo dopo le prime pubblicazioni in campo poetico.

Questo è il corpo, per definizione dell’autorə, è un breviario, un manualetto, uno strumento tascabile con cui agire sul reale. Attraverso la forma del romanzo, Simone Marcelli Pitzalis ha creato un arsenale di parole indispensabili che lə lettorə può portare con sé, in tasca o nel cuore, per cercare una “via nuova” per raccontare – e al contempo plasmare – il reale. Il romanzo è infatti la “forma finale” di un processo che inizialmente scaturisce da una necessità emotiva, un getto di rabbia della voce narrante che diventa parola e che solo alla fine si fa libro, per risultare intelligibile e comunicare con l’esterno.

Per quasi tutto il tempo, la voce narrante rimane nel mistero, o ancora una volta nella notte. Il suo compito è raccontare una storia, una storia eversiva, straniante e dolorosa. Si tratta della storia di Veronica, ragazza transgender aggredita in un paese assediato dal turismo e dal cambiamento climatico. Raccontando questa storia, una storia che porta con sé un peso e che pian piano si dichiara inattendibile, la voce narrante si prende uno spazio per parlare, dire la sua versione, in sostanza esistere, tra omissioni e digressioni, salti temporali e dettagli incongruenti, in un turbinante flusso verboso, poetico, che rimastica il vissuto.

Il Rituale dei giorni nuovi si ambienta fra il podere di Montelungo, il borgo, casa della Dora e l’ex colorificio, una geografia compressa e asfittica che ricorda per alcuni versi il Maradágal di La Cognizione del dolore di Gadda e in cui si può ritrovare la provincia italica, o più precisamente centroitalica, a cui l’autorə si è ispiratə. Qui gli abitanti affittano le loro dimore ai turisti, ritirandosi a vivere in stanzette precarie, per poter dare impulso al business che cresce attorno alle meraviglie del circuito enogastronomico locale. Il neoliberismo contribuisce a omologare il territorio, a escludere la non-conformità rispetto alla promessa da cartolina, per soddisfare le aspettative dei consumatori che arrivano e se ne vanno.

In questo contesto socioculturale, dove “ogni cosa è proprietà” e tutto è uniforme, avviene lo scontro con la forza oscura e primigenia delle matrone. Queste ultime sono state definite dall’autorə soggettività “alloctone”, in quanto si tratta di persone queer che si spostano costantemente senza fermarsi in nessun luogo. Con le loro vesti nere, i gioielli vistosi, le teste rasate, viaggiano su un carrozzone che raccoglie lungo la strada chi viene esclusə dalla società. La descrizione delle matrone richiama da un lato l’estetica underground e dall’altra l’immagine mediterranea, atavica, della donna vestita di nero. Inoltre, il gesto di adornarsi assume il valore di azione liturgica, cerimoniale, in linea con una spiritualità diffusa e con la tensione alla liberazione e all’affermazione di un’identità propria. 

Ora ogni cosa è proprietà, ma ogni cosa sarà spazio, dicono le matrone. Dicono e dicono le matrone, formulano presagi in una lingua loro deforme e abissale che suona come una sentenza, o un progetto; la voce loro vibra di una forza fatale: tu l’ascolti e ti schiaccia, rannicchiato contro un significato che ti sfugge, sempre sempre ci sfugge. E allora le guardo, le matrone, quei corpi che emettono ringhi e profezie. Vedo corpi diversi e abbondanti. Corpi di stoffe nere e gioielli pesanti, corpi seminudi ricoperti di ori. E vedo corpi anche indifesi, per un momento, indifesi dall’irradiarsi di questa forza grande che li parla e li vibra, i corpi, e sempre li mette in moto in viaggi continentali sterminati, in una processione che incede febbrile. Dove vanno, le matrone. Chi erano, prima di votare la vita al cammino.

Esse si inseriscono in una cosmogonia particolare, creata dall’autorə, in cima alla quale ci sono entità superiori, le Sante, che si impossessano delle matrone e parlano attraverso il loro corpo.  

Quando una Santa parla per bocca di una matrona, per tutto il campo si alza un grido euforico. Si accendono fuochi e si balla. Si dà da mangiare alla matrona che ha parlato, che ha faticato e sudato per parlare con voce di Santa, e si ride, si grida, e tutte le altre matrone gridano gioiose e impartiscono ordini qua e là affinché le parole delle Sante abbiano seguito.

Sia le matrone che le Sante sono declinate al femminile anche se sono un’entità plurale, non sappiamo né quante né chi siano, così come non conosciamo il loro genere. Questa scelta di declinazione è infatti un gesto politico che vuole contrapporre al maschile sovraesteso un femminile sovraesteso. 

Le Sante sono distruttrici di mondi, dove passano lasciano macerie ma allo stesso tempo riconsegnano la libertà alle soggettività a cui è stata tolta. Nell’accostamento con la realtà del borgo, è evidente che le Sante costituiscono l’alterità, un’alterità tragica in quanto priva di una sintesi, di una soluzione, sin dall’inizio. È dall’esclusione che le Sante ottengono il loro potere, quando vengono gettate nell’ombra ottengono la forza di risalire da questa zona buia. 

Con una frase detta dall’autorə, in occasione di una presentazione del libro:

Essere ammessi alla luce della società offre delle tutele ma toglie la possibilità di agire nella libertà che solo l’ombra e l’ignoto possono consegnarci.

La voce narrante non si integra con le matrone né con le altre persone del carrozzone, vede la loro realtà dall’esterno, la invidia e ne rimane estranea se non per il fatto che proprio dalle matrone riceve il compito di raccontare la vicenda che si è svolta nel borgo. Non è quindi la vittima a narrare la storia, in quanto l’aggressione subita segna per Veronica un punto di non ritorno, bensì la soggettività esclusa, che è anche “cattiva”, invidiosa, e violenta nella misura in cui si arroga il diritto di narrare un’esperienza e un’identità che non sono le sue. 

Ancora con una frase detta dall’autorə nel corso di un’intervista:

Non c’è modo di narrare senza essere violent3. L’unico gesto assolutamente inattaccabile è parlare solo di sé e questo è impossibile, il gesto narrativo si allunga verso il mondo, commette violenza perché si dà il diritto di narrare. Il mio romanzo vuole dare forma a questa tensione tragica. 

Attraverso il racconto, che progressivamente sfugge sempre più al controllo della voce narrante, intravediamo, a sprazzi, la vicenda che l’ha condotta da una parte al rancore e parallelamente, all’acquisizione del potere di narrare.  Sono infatti proprio le matrone che le chiedono una nuova storia, una nuova “epica”, per poter ricostruire dopo la distruzione, nello spazio guadagnato.

La voce narrante appare inizialmente onnisciente ma pian piano si rivela manchevole, incoerente, inattendibile, incontrollata. Veronica, al contrario, all’interno del testo non ha voce, resta soltanto un corpo, da cui il titolo del libro. Ancora una volta, dal romanzo emerge l’idea che non esista possibilità di innocenza nel raccontare le storie, anche quando si vuole fare vendetta e agire per la liberazione.

Il testo non è scritto con l’uso dello schwa, anche se esso viene menzionato, perché la voce narrante, nonostante sia una persona di genere non definito, non ha una comunità di riferimento e le manca quindi una lingua condivisa, comune, che sia strumento di scambio.  

Usa dunque il vecchio linguaggio ma lo cantilena, lo spezza, lo sovverte, offrendoci una lingua che è nuova, distruttrice e creatrice insieme, strumento pratico e metalinguistico allo stesso tempo.

[…] sono stata frocio, sono stato puttana, sono un finocchio, una femmina, un mostro che non sta né qua né là, un pazzo, dicono che sono un pazzo che ha avuto il trauma, il trauma. Sempre il trauma, cercano, la ragione della stortura. Quale trauma. Tutto è trauma, se guardo, se guardo indietro tutto è trauma, ogni incontro, ogni singola persona incrociata, ogni occhio che si è posato sul mio corpo e ha visto il bambino sfigato e ha visto la bambina cattivella, tutto è trauma. Ma per grazia delle Sante ci ho il dono, io. Prendo il male, la putredine che ci pisciano nel cuore le boccacce schifose delle vecchie. Lo prendo e lo butto, lo comprimo, lo isolo, faccio il vuoto. Faccio il silenzio dove il male non urla più.

Questo è il corpo è quindi un romanzo ma anche un breviario, uno strumento per vivere nel mondo, un esordio potente che usa le tenebre che avvolgono ciò che non è conosciuto o che è misconosciuto per risalire verso la luce con grande potenza letteraria. La sua lingua è “deforme e abissale” come quella delle matrone e come la loro “suona come una sentenza, o un progetto”.