“Dobbiamo attraversare un periodo di saturazione di immagini,
affinché riemerga l’esigenza del linguaggio?”
Peter Brook, 1968
Lo stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice ha la stessa malinconia settembrina di certe canzoni di Concato o Carboni, di quando come italiani riuscivamo a pensarci come società educata, civile e organizzata come tale; una società da cui si poteva uscire per un weekend senza correre il rischio di non sapere come rientrarvi, senza che la vacanza dovesse comportare la messa in discussione di un dato sistema di cose (lavoro, casa, famiglia); senza insomma diventare del tutto selvaggi e bestiali.
Allo stesso modo, il narratore del lungo racconto di Del Giudice sembra mollare tutto (ma tutto cosa?) per mettersi sulle tracce (ma è più un mettersi in fuga) di Roberto Bazlen, figura insieme misteriosa e centrale per tutta l’editoria italiana novecentesca; Bazlen, detto Bobi, che in vita non aveva scritto una riga (ma sarebbe meglio dire: pubblicato), e che anzi aveva preferito agire direttamente le esistenze altrui piuttosto che farne delle storie a sua volta.
Ho parlato di “lungo racconto” perché sono abbastanza convinto, per quanto possa risultare di qualche utilità essere convinti di una cosa del genere nel 2022, che quello di Del Giudice non sia affatto un romanzo, come lo definiva invece Italo Calvino nella quarta di copertina della prima edizione Einaudi del 1983.
Non so se già all’epoca dell’uscita dello Stadio presentare un libro utilizzando l’affidabile etichetta di “romanzo” aiutasse le vendite come succede oggi (almeno nelle intenzioni degli editori), ma della forma romanzo il testo di Del Giudice non ha neppure lontanamente il volume – e non mi riferisco qui al banale numero di pagine, poco più di cento attraversate da generosi spazi bianchi, quanto a quella sostanza tipica e indecifrabile, fatta di aria, ambizioni e tipografia, che fa di un romanzo un romanzo.
Beninteso, trovare che Lo stadio di Wimbledon sia un racconto lungo piuttosto che un romanzo non è affatto un giudizio di merito sulla qualità del testo.
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Sempre nella sua quarta, Italo Calvino definiva Bazlen “una figura originale nella vita letteraria italiana, amico di poeti e scrittori” senza mai citarne il nome, anzi sostenendo che ai fini della lettura del racconto di Del Giudice non fosse importante avere confidenza con la biografia bazleniana, quasi a voler rassicurare i lettori che non la conoscevano affatto.
Ma il nome di Bazlen non viene fuori nemmeno nella quarta e nel risvolto dell’ultima edizione Einaudi (2021), in cui si parla di “uno scrittore nevralgico che non scrisse mai nemmeno un libro” e di un “non-scrittore morto da anni, evanescente e inafferrabile, decisivo per la società culturale del suo Paese senza aver mai scritto una riga”.
Non so se sia davvero possibile addentrarsi nello Stadio di Wimbledon senza sapere nulla di nulla di Bobi Bazlen, se non altro perché il narratore, nel racconto, il suo nome lo fa per esteso, più volte; ma è curioso come già nelle parole di Calvino il critico, traduttore e co-fondatore di Adelphi venisse ridotto a una sorta di MacGuffin nell’economia di questa storia di Del Giudice e, per estensione, di tutta la letteratura e l’editoria italiana.
Il che è anche un po’ strano, dato appunto non solo il peso di Bazlen nella “società culturale del suo Paese”, ma anche alla luce del fatto che alcuni suoi scritti erano stati pubblicati da Adelphi già a partire dal 1968, a tre anni dalla sua scomparsa; un buon numero di testi (schede editoriali, note, lettere, un romanzo incompiuto) poi confluiti negli Scritti (389 pagine) raccolti sempre da Adelphi nel 1984, giusto un anno dopo la pubblicazione dello Stadio di Wimbledon.
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Dunque Bazlen aveva scritto ed era stato anche pubblicato, benché postumo. Forse, allora, la domanda che il narratore di Del Giudice avrebbe dovuto porre agli amici di Bazlen (oltre che al sé stesso che conosceva bene i testi di Bazlen) era un’altra, e cioè: “Perché non ha mai scritto un romanzo?”; quesito tipicamente letterario, posto in termini altrettanto letterari, all’interno di una civiltà ormai sull’orlo dell’estinzione.
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Quanto è bello e liberatorio scrivere “questa è una storia di fantasmi”? Ma in fondo Lo stadio di Wimbledon è soprattutto questo, e lo è più di tante storie con fantasmi veri o presunti; in questa storia hanno qualcosa di fortemente fantasmatico, oltre allo stesso Bazlen, tutte le persone che il narratore incontra come le città che visita (Trieste e Londra) nel corso della sua indagine.
Ma è decisamente un fantasma anche la civiltà letteraria raccontata da Del Giudice, lo sono i modi e le contraddizioni che l’animano – “Conta più l’opera o la vita? Meglio raccontare o esistere?” – e soprattutto l’illusione che abbia influito davvero sulle sorti di questo Paese. Ma se così fosse, se non si fosse cioè trattato di un’illusione coltivata da un piccolo segmento di società italiana, allora perché consegnare all’oblio il nome di uno dei suoi protagonisti principali come fanno Calvino e Einaudi nell’accompagnare Lo stadio di Wimbledon? Soprattutto, perché affrettarsi a rassicurare il lettore affermando che “chi fosse questo personaggio […] non ha importanza” ai fini della lettura del racconto di Del Giudice?
Ed è un fantasma, in fondo, questo stesso libro, che non solo oggi difficilmente verrebbe pubblicato (chi pubblicherebbe un esordiente, com’era Del Giudice allora, con un racconto lungo su un addetto ai lavori per giunta piuttosto misterioso agli occhi degli stessi addetti ai lavori? Risposta: Italo Calvino, quindi nessuno), ma con tutta probabilità non si potrebbe neppure scrivere, nel senso che le sue vicende non potrebbero avvenire, o almeno non nei termini riportati da Del Giudice: le ricerche del narratore, col web, si esaurirebbero in pochi minuti e difficilmente darebbero vita a viaggi e incontri dal vivo; incontri che per lo più verrebbero consumati in conversazioni online, che finirebbero col saturare quei dialoghi che nello Stadio procedono per sottrazioni, allusioni e omissioni. Avrebbero poi poco senso le precise descrizioni di Del Giudice quanto la sua fissazione per mappe, dati e misurazioni, un’ossessione che è possibile decodificare solo da parte dei cosiddetti lettori forti (ma direi meglio ostinati), ossia quei pochi lettori ancora in grado di tradurre all’istante, grazie a capacità di lettura e concentrazione dai più ormai perdute, una serie piuttosto articolata di parole ed espressioni in immagini immediate ed altrettanto efficaci.
Al contrario, c’è nel racconto una singolare repulsione da parte del narratore per le fotografie; come se Del Giudice avesse intuito l’estinzione di una civiltà legata alla letteratura come parola scritta, il suo narratore non solo rifiuta di rubare la macchina fotografica che trova incustodita all’interno dello stadio di Wimbledon – strumento che farebbe di lui un produttore di immagini, e non più di parole – ma anche di guardare le fotografie che di volta in volta i suoi interlocutori gli mostrano per raccontare la vita con Bazlen. Come se Bazlen, e per estensione stavolta il mondo intero, non dovesse mai prendere vita attraverso l’immagine per restare dunque descrivibile e riproducibile esclusivamente attraverso il linguaggio e una certa “coscienza letteraria” (per citare sempre il Calvino della quarta), in ogni caso tramite la parola scritta.
Lo stadio di Wimbledon è un racconto di fantasmi perché viene pubblicato quando il mistero attorno al mondo inizia a sfumare; così come il mondo, mappato per intero grazie alla tecnologia, non può più essere abitato da leones e dracones, lo stesso sta avvenendo con gli individui, di cui tutto è scritto e visto, soprattutto visto, in giro per la rete. È arduo fare letteratura a partire da geografie e biografie che sono continuamente in mostra, che non hanno più antri o punti ciechi da esplorare e indagare (al contrario di quanto accaduto con Bazlen), peraltro mentre la consapevolezza verso l’ambigua precisione della parola scritta non è più un valore condiviso; per esaurimento del mistero o incapacità di immaginarne e inseguirne di inediti con strumenti nuovi, così si è estinta la nostra civiltà letteraria. Chi vorrebbe restaurarla è senza cervello, chi non la rimpiange è senza cuore.