O professor (questo il titolo originale del romanzo del 2013 di Cristovão Tezza, pubblicato in Italia da Fazi nel 2016) si sveglia dopo un sonno difficile, dopo un sogno in cui un nemico, il nemico, tenta di avvicinare le labbra alle sue: avrà voluto baciarlo, in una pretesa di affetto, o mettergli in bocca parole non sue, ossia parole usate a caso, non studiate, intraducibili?
Heliseu da Motta e Silva con le parole ha un rapporto consapevole, è un filologo al termine della sua carriera accademica. Si alza e si prepara a ricevere un’onorificenza nell’università dove ha insegnato per la parte della sua vita più consistente in termini di quantità e di priorità (lo spazio dove rifugiarsi dall’inseguimento di quella cazzo di vita privata e dove esattamente quella cazzo di vita privata l’ha raggiunto e «devastato»).
La caduta delle consonanti intervocaliche (questo il felice titolo scelto per la felicissima traduzione italiana di Daniele Petruccioli) è un romanzo dove la ricerca di un filo logico nell’illogico è la sinuosa trama, un fiume di parole misurate ma invadenti che tracimano dal flusso interiore del protagonista nella descrizione in terza persona dei suoi movimenti, mere conseguenze gestuali di pensieri e ricordi, a loro volta stimolati da una cravatta che non vuole annodarsi o da un corpo lavato e asciugato che espone tutta la sua vecchiaia, in una continuità senza segnali di distacco, senza appesantimenti tecnici. Parole che entrano ed escono dalla testa di Heliseu, parole dette da altri: dai colleghi nella sala dove i caffè si raffreddano in mano, dalla moglie Mônica (detta Mnemônica), cucitrice infallibile quanto inutile di fattucoli privati ed eventi storici (ma il mondo basta a se stesso), da Therèse, acuta dottoranda francese dalla bellezza straniera, o non conciliata, menomata di un accento acuto dalla macchina burocratica brasiliana nel processo di naturalizzazione, e da Eduardo-Dudù, il figlio ormai statunitense nell’accento, nei modi, nel disprezzo verso il Brasile e nell’apprezzamento per la retorica del pane al pane. Voci che riverberano negli strati geologici più profondi di Heliseu, nei sedimenti delle citazioni in portoghese arcaico che recita a memoria, in quelle parole scritte dove le consonanti intervocaliche resistono solide, calme e chiare, mentre in quelle orali i significati reali sembrano perdersi nel non detto e scivolare con una certa facilità, come da un settimo piano.
La caduta delle consonanti intervocaliche è il fenomeno – subdolo, diabolico, vivacizzante – occorso tra il X e il XI secolo, che ha portato alla separazione del portoghese dallo spagnolo, a un più espressivo e gemente dor rispetto a un meno esibito dolor, e di conseguenza a tante altre storie e geografie. Heliseu illustra questo processo alla consulente del Banco do Brasil con cui ormai ha instaurato una frequentazione regolare, nel tentativo di salvare il gruzzolo sudato con lezioni, corsi e ripetizioni, dalla feroce inflazione degli anni Settanta. Il portafoglio azionario Luna è la soluzione perfetta, gli spiega la consulente non bella, almeno non spaventosamente bella, ma sorridente, con bei denti – effetto di apparecchi e di progresso cittadino – e occhi come due jabuticaba. Luna: tracciando un rigo sulla consonante del logo, sorge la lua, tanto su Alcantara quanto su Copacabana, ed ecco fotografata l’atto di nascita di una parola «parlata», assorbita dal sistema ortografico e distinta da un’altra solo o prevalentemente trasmessa dalla scrittura; ecco immortalato lo iato tra la vita sbrigativa e quella che tenta di afferrare se stessa, di fermarsi. «Se in lunar [lunare] la ‘n’ non è caduta è perché si tratta di una parola ripescata nel Rinascimento, dalla scrittura scritta anziché da quella orale. […] Invece luar, il nostro ‘chiaro di luna’, quello ci è arrivato a furor di popolo».
Il «furor di popolo», praticamente lo stesso spettro invocato da João Veris, dal detestato Veris, il collega politicizzato, attivo più in sala professori che in aula, dedito più a invettive che a lezioni e ricerca. Il fastidio che provoca in un Heliseu progressivamente antiprogressista, negli anni più audacemente e meno segretamente reazionario, ricorda per intensità di contrasto, anzi per la sensazione di sassolino nella scarpa, il Terry McIver di Barney Panofsky. Come Barney (e come Herzog), il nostro tenta di tirare un filo dalla matassa indistinta della sua esistenza: i punti principali, gli snodi, le simmetrie, le colpe, le accuse a mezza voce per una morte in circostanze misteriose, anzi due: quella della moglie scivolata dal balcone e quella della madre scivolata dalle scale, dove lui bambino osserva la scena, mentre il padre resta immobile e indecifrabile. Ma il parallelo può terminare qui; il tono, il flusso dei pensieri di Heliseu è tragicamente misurato, l’ironia è lieve, accennata, a tratti stizzita, autocompiaciuta. Nessuna battuta caustica, niente Macallan né Montecristo (l’educazione de facto puritana impartitagli dal padre ha lasciato in lui tracce importanti), nessuno scontro frontale, al massimo qualche pastiglia di ansiolitico.
O professor è un memoir urbano, un percorso impressionista lungo i principali sentieri di un’esistenza che non desidera essere presa di petto e preferisce manifestarsi culturalmente, civilmente mediata. D’altronde, le parole – almeno per una certa tradizione – calmano: «Sono un investigatore razionale di parole e fatti, in quest’ordine. O un vecchio nominalista, il che permette di migliorare sempre le persone e le cose. Date un nome alle persone, ai fatti e agli oggetti ed essi si tranquillizzeranno, come docili cagnolini». E allora il poliziotto – frettoloso, svogliato, malpagato – giunto dopo la tragica morte di Mônica (Mnemônica) con il dovere di annotare fatti e circostanze su un taccuino, di investigare sul decesso, nella mente di Heliseu, corroso dal rimorso, diventa Maigret: letterario, addomesticato, gestibile; mentre il Brasile, il paese continentale, l’ex colonia, lo stato dittatoriale, la burrascosa democrazia, è presentato nelle sue peripezie linguistiche, negli eventi ricordati da Mônica per marcare lo scorrere della monotona esistenza familiare, nel disprezzo per la patria (per il padre retrogrado) che di tanto in tanto suo figlio, in procinto di adottare con il compagno una bambina Afro-American, gli manifesta con gelide telefonate da San Francisco, e fa da nutrimento agli accessi politici di Veris e del suo pari femminile, la detestata, invadente, progressista Úrsula, che con i suoi suggerimenti di matrimonio moderno (per i matrimoni altrui) rappresenta il cambiamento epocale trasfuso goccia a goccia nel sangue – anemico – delle vite private, da appartamento, spaesate e frastornate dagli eventi pubblici. Ma forse il Brasile che davvero scruta e interroga Heliseu è quello silenzioso, dall’identità incerta, incarnato nel viso di dona Diva, (soprannominata Divina, l’ancestrale trascendente), fedele domestica di una vita, presenza discretamente inevitabile, dal volto sempre uguale e sempre sfuggente: «A volte immaginava di vederla più india, altri giorni più nera, altri più bianca, era come se ciascun volto evidenziasse tratti di comportamento inconfondibili, che lui avrebbe potuto astrarre in schemi teorici, chissà, magari un giorno potevano tornare utili in sala caffè, la sua agorà – altre volte dona Diva gli risultava assolutamente indecifrabile, come in quel preciso istante».
I tratti, i sentieri, sfuggono, si coprono di vegetazione. Che senso dare alla vita? Come ricordare una vita? Come rappresentarla, di fronte a sé e a un pubblico che vuole celebrarci – dichiarare ufficialmente il nostro decesso sociale – con un’onorificenza? Quale filo diacritico seguire e con quali argomenti? Quale germinazione indagare e per sostenere quale tesi? Cosa possiamo definire importante nelle nostre vite? Non resta che proseguire a incastro, lasciando che i tasselli si facciano avanti da soli, per una volta accettando l’ambiguità di un disegno complessivo asimmetrico.
Lo spazio pubblico e lo spazio privato: i due registri che con attrito, ma senza stridore, si contendono la tonalità del flusso meditativo di Heliseu e la narrazione di Tezza. Si contrappongono per sbalzi, per cambi di voci e persone, per accorgimenti grafici (citazioni, corsivi), il tutto a rimarcare direzioni, strade, incroci progettati o emergenti per impatto, svolte non indicate, tracciati obbligati. Lo sviluppo cronologico di una lingua, le intemperanze storiche, sociali, economiche: la vita che irrompe nel lessico, nella sintassi, nella purezza etimologica, nell’inevitabile ambiguità della comunicazione umana.
Heliseu pensa al discorso che farà davanti ai colleghi, seleziona le infinite possibilità di forma e contenuto che gli si presentano mentre si lava, fa colazione, asseconda i movimenti peristaltici. Dire la verità. Ma la verità non si può dire. Raccontare la noia delle conversazioni tra colleghi, la noia del matrimonio, la passione per le parole, tranquillizzanti, la passione per Therèse, dottoranda da ufficio e da letto, il suo abbandono. Nulla di questo si può dire. Sarebbe buffo, ma non può avvenire. Spazio pubblico e spazio privato devono restare lontani, eppure si scontrano, si sono scontrati, fisicamente. Heliseu ricorda – riprende, inserendo dettagli a spirale ascendente e discendente, percependo ogni volta di più come quel piccolo fatto, lasciato passare con la noncuranza di un refolo, sia stato determinante – il fastidio immenso per la presenza della moglie nei corridoi dell’università, nel mio territorio, mentre lui, di corsa per scappare dalla mitraglia-Veris, raggiungeva l’aula come un bicchiere d’acqua un assetato, per immergersi nell’elemento proprio. Perché lei era lì? Per imparare l’inglese, con un corso pagato dalla banca, per migliorarsi, internazionalizzarsi, emanciparsi insieme all’intera società brasiliana e – sì – fare nuove amicizie, una mossa che Heliseu percepisce come rozza, superiore al contrario, come definisce lei e Úrsula, la donna con cui sua moglie sembrerà legarsi anche sentimentalmente. E in quei pochi istanti e in quelli immediatamente successivi, quel desiderio diffuso che è la vita prende un tracciato, trova una svolta segnalata: l’ingresso con goffaggine studiata di Therèse, prima nell’aula, poi nel suo ufficio, infine ovunque e per sempre.
Therèse la naturalizzata, la più frrancese che brrasiliana, con la sua tesi di dottorato vuole dimostrare la grammaticalizzazione del doppio senso nel parlato portoghese brasiliano, ossia le tracce che l’ambiguità è certamente riuscita a incidere nel sistema (la caduta delle consonanti ha pur nasalizzato le vocali), il potere del non detto sulla sintassi, sulla formazione di un lessico dove il significato è da ricercare fuori dalle parole stesse. Heliseu, il distaccato ma appassionato professore, l’acuto studioso, l’immediatamente e perdutamente innamorato, accetta la sfida, accoglie il segreto che si nasconde al di sotto dell’involucro e che però, alla fine, non riuscirà a far entrare nel sistema: E chi ha detto che voglio sposarti?
Dunque, questo romanzo sull’ambiguità, sul tentativo di dare un senso alle collisioni tra sfere altre è ambiguamente straordinario, perché non lo è. Di cosa parla? Di vecchiaia, di un matrimonio noioso, di un rapporto difficile con un figlio, di insofferenze nei confronti dei colleghi e dell’ambiente lavorativo, di un’amante, di un amore forse sorto per compensare la monotonia, vissuto negli interstizi di una ricerca intellettuale e da questa scaldato, di un rapporto mancato con i genitori, delle piccolezze che punteggiano il quotidiano borghese. In breve, La caduta delle consonanti intervocaliche è la storia di una vita normale, di dolori più o meno gementi, però contenuti, di rifugi e sotterfugi alla portata. Ma tutto questo, questa narrazione come già detto urbana, realista, può apparire straordinaria, almeno per le aspettative, indotte o apprese, sulla letteratura «sudamericana», con i suoi marchi del fantastico, del magico, del mistico-lussureggiante. Niente di tutto questo appare in Tezza che, seppure con tutta la sua personalità, volutamente si inserisce – verrebbe da dire buono buonino e sempre che abbiano senso queste distinzioni – nel solco più razionalista, impressionista ed equilibrato della letteratura brasiliana, nel «lato chiaroscuro» più prossimo all’elegante Machado de Assis che all’evocatore di diavoli Guimarães Rosa.
E alla fine Heliseu cosa sceglierà di dire? Frasi cordialmente distaccate e di circostanza, forse con qualche addomesticata ironia che, le aveva spiegato Therèse, è roba da salotto e autoreferenziale, perché solo la conventicola che la produce e a cui è diretta ne comprende il significato. Niente di più e nulla di meno. Il senso della vita non è molto altro, la vita tutt’al più si instrada e questo quanto. E lui come sta? Si guarda allo specchio, si attarda nel silenzio e nel non detto e conclude: Sto bene. Qualunque cosa voglia dire e a chi.