Non fatevi ingannare dalla foto di Wolfgang Tillmans in copertina. Il giovane Mungo (Mondadori) di Douglas Stuart è più un brutale romanzo di formazione sulla perdita dell’innocenza che una storia d’amore. Mungo e James, i Romeo e Giulietta dell’East End di Glasgow, riescono a rubare appena poche settimane di tenerezza prima di essere scoperti e rimessi in riga. Ma quelle poche settimane sono sufficienti per convincere Mungo che esiste un altro futuro possibile, uno in cui non è costretto a lasciarsi plasmare nell’uomo che suo fratello Hamish si aspetta che sia.
Per un adolescente cresciuto a cavallo tra anni ’80 e ‘90 tra le case popolari di un ex quartiere operaio, impoverito dalle politiche di rapida deindustrializzazione e austerity del governo Thatcher, non essere come gli altri è pericoloso, come mettersi un bersaglio sulla schiena. Rimanere dov’è significa rassegnarsi a diventare uno di quegli scapoli a cui i ragazzini scrivono “pedofilo” sulla porta o fanno il verso per strada, come il suo vicino Chickie Calhoun, confinato a una decorosa solitudine che ricorda un regime di clausura.
Questa prospettiva lo atterrisce, lo riempie di vergogna, lo porta a chiedersi quale sia quel segno distintivo che gli altri sembrano riconoscere in lui e che non riesce a mascherare. A meno di non cedere alle pressioni di Hamish e trovarsi alla svelta una ragazza da mettere incinta, poi un lavoro per mantenere la famiglia, rubando o vendendo ecstasy agli studenti del West End per arrotondare e sfogando rabbia e frustrazione sui discendenti degli irlandesi, da bravo scozzese suprematista, prima negli scontri tra gang e poi al pub dopo i derby tra Ranger e Celtic, finché tutti si dimenticheranno che è mai stato capace di mostrare gentilezza e compassione.
Perché in fondo è questo il crimine per cui viene punito, non aver saputo adeguarsi all’unico modello di virilità accettabile. Essersi innamorato di un cattolico con le orecchie a sventola, a ulteriore sfregio della regola per cui un orangista dovrebbe avvicinarsi a un feniano solo per dargli una coltellata, è solo l’aggravante.
Quando il suo segreto viene fuori, per la sua famiglia è più facile immaginare che sia stato traviato e che si possa ancora salvare con un corso intensivo di mascolinità. È qui che incontriamo Mungo per la prima volta, il maggio dopo aver incontrato l’amore e averlo perso, un quindicenne pieno di tic e di traumi che trascina i piedi verso la fermata dell’autobus in compagnia dei due sconosciuti a cui la madre l’ha affidato in un maldestro tentativo di correggere le sue inclinazioni con attività da veri uomini, per il suo bene.
Chiunque altro avrebbe fiutato il pericolo e avrebbe puntato i piedi. Peccato che Mungo, come il santo di cui porta il nome, sia invece dotato di pazienza infinita, incapace di ribellarsi, eternamente accogliente e fiducioso, o forse solo molto lento nel decifrare le intenzioni delle persone, non sempre trasparenti come lui. Si stringe nel maglione che ha rubato a James per sentirlo più vicino e sopporta la compagnia dell’anziano St. Christopher con i denti rovinati e del più giovane e manesco Gallowgate, cercando addirittura di farseli piacere mentre si allontana con loro in direzione delle verdi colline di Dumbarton, dove lo stanno portando a pesca di trote in riva al lago.
Per tutto il romanzo, i capitoli si alternano tra due linee temporali, il maggio dopo e il gennaio prima, divisi tra la tensione crescente di qualcosa di orribile che sta per succedere e i mesi di vita quotidiana che precedono la presa di consapevolezza di Mungo, la fine della sua infanzia.
Delle due, la più riuscita e interessante è la seconda. Non è solo la storia di una famiglia, ma quella di un’intera comunità. È un libro pieno di dolore, tematicamente fin troppo vicino al romanzo d’esordio di Stuart, Storia di Shuggie Bain, vincitore del Booker Prize nel 2020, ma ha anche un grande pregio, quello di non scivolare in quella che D. Hunter in Tute, traumi e traditori di classe (Alegre) definisce “la morale liberale della Gran Bretagna contemporanea, con la sua pretesa che le persone compiono scelte buone o cattive, cosa che definisce il loro cattivo o buon temperamento, che a sua volta definisce il loro valore”.
Quello che suggerisce Il giovane Mungo è piuttosto che persino in posti molto duri c’è spazio per la dignità, la solidarietà, l’amore, anche quando è intrecciato a un distorto senso di responsabilità e protezione. Nel quartiere il settarismo e la violenza coesistono con reti di fiducia, cura e affetto che permettono ai più deboli di rimanere a galla, per quanto questo supporto sia limitato e discontinuo. Le piccole gentilezze tra vicini di casa vengono opportunamente mascherate in modo che nessuno si senta sminuito, i debiti di sangue ripagati con tregue e compensazioni. La stessa ambivalenza si riflette sul suo protagonista, allo stesso tempo trascurato nei suoi bisogni materiali ed emotivi e coccolato e protetto come tutti i figli minori.
Dei tre ragazzi Hamilton – Hamish, Jodie e Mungo – nessun altro ha avuto tanta fortuna. Suo fratello e sua sorella si sono cresciuti da soli, interpretando i ruoli degli adulti prima di diventarlo davvero. Hamish ha preso il posto e il soprannome del padre, Ha-Ha, leggenda del quartiere, ucciso da una banda di ragazzini irlandesi quando Mungo non era ancora nato, compensando la bassa statura e gli occhiali a fondo di bottiglia con una cattiveria che terrorizza uomini più grandi di lui. A diciotto anni, è già padre di una bambina e in lista per un appartamento con la fidanzata Sammy-Jo, venerato come un dio dai suoi sottoposti perché appare invulnerabile.
Jodie ha solo un anno più di Mungo, ma è anche una ragazza – tanto basta per condannarla a farsi carico della casa e del fratello minore al posto della madre Maureen, Ma-Mo, cronicamente inaffidabile e infelice, troppo giovane per rinunciare a bere, ballare, flirtare con gli uomini e abituata a sparire per giorni interi. Persino lei rimprovera a Mungo di non sapersi comportare da uomo quando serve, troppo mite e delicato per riuscire a soccorrere un’anziana vicina vittima di violenza domestica, o per aiutare Jodie stessa a uscire dal vicolo cieco di una gravidanza inaspettata.
Nessuno però si sente addosso la responsabilità di fare di Mungo un uomo quanto Hamish. Dalle lezioni crudeli che gli ha impartito per tutta l’infanzia, tendendogli trappole e manipolandolo per insegnargli a guardare con sospetto la gentilezza altrui, fino all’insistenza con cui pretende che il fratello partecipi ai raid nei cantieri e agli scontri tra Billy Boys e Bhoyston, teppisti orangisti e teppisti feniani, Hamish gli insegna a sopravvivere nell’unico modo che conosce.
Come insegna Pierre Bourdieu, sociologo e antropologo che ha fatto il giro lungo passando dalle strutture androcentriche della società cabila per raccontare agli europei la verità sul loro stesso fallocentrismo ne Il dominio maschile (Feltrinelli), la virilità e l’onore, così come la vergogna, sono nozioni relazionali – nozioni che esistono solo se convalidate dal giudizio degli altri, non una volta per tutte ma continuamente. Nel microcosmo criminale di Hamish, in linea con questo principio, gli uomini dimostrano di essere uomini affermando la loro virilità nella sua “verità di violenza, attuale o potenziale”, al di fuori di ogni tenerezza, qualità femminile speculare e complementare, in particolare quando provano di essere in grado di resistere alle loro sofferenze ma anche e soprattutto alle sofferenze degli altri.
La reticenza di Mungo nel sottoporsi a prove di coraggio non lo umilia quanto la delusione che prova quando il fratello, durante il suo primo raid, rimane indietro e rischia di farsi arrestare per soccorrere un ragazzo scivolato giù da un muretto bagnato come un sacco di farina, spezzandosi il braccio. Quando poi viene a sapere che Mungo ha iniziato a fraternizzare con il nemico, l’unico modo di lavare pubblicamente quella doppia onta è esercitare una violenza che compensi la stolta e ostinata dolcezza del fratello, come minacciare di dare fuoco a James insieme a tutti i piccioni della sua colombaia.
Sarebbe molto facile dipingerlo come un mostro, ma Stuart prende una direzione diversa, quella della pietà. Hamish è una figura tragica, la prova vivente che quella virilità esasperata che permette di dominare è per i dominatori stessi una trappola, un carico opprimente. La virilità, scriveva Bourdieu, “ha la sua contropartita nella tensione e nello scontro permanenti, spinti a volte sino all’assurdo”. Una spavalderia che nasconde una forma di viltà, quella paura di perdere la faccia davanti agli altri uomini e retrocedere alla categoria tipicamente femminile dei deboli, delle femminucce, dei froci, quella a cui Hamish non può sopportare di vedere relegato il fratello e che lo porta a convincersi di essere nel giusto, di salvarlo distruggendo quello che per lui è più importante.
E paradossalmente è proprio a Hamish e alle sue lezioni che Mungo si aggrappa quando subisce una violenza di altro genere, solo in riva al lago con due uomini sempre più ubriachi e sempre meno gentili. C’è una sorta di perversa ironia nel fatto che i veri pedofili si approfittino del luogo comune secondo cui passare del tempo tra uomini abbia una funzione educativa essenziale, per i ragazzini effeminati. Se lui si trova lì con loro è perché nella testa di Ma-Mo i deviati somigliano a Chickie, mentre Gallowgate e St Christopher non sono diversi da tutti gli altri. Questa narrativa permette ai due uomini di ridefinire lo stupro come un gioco sfuggito di mano, qualcosa che si fa tra maschi quando si beve troppo, o per non rischiare di mettere incinta una ragazza, facendo leva sulla vergogna per assicurarsi che Mungo non racconti a nessuno quello che è successo, insinuando che sotto sotto gli sia piaciuto, che non sia tanto diverso da quello che ha fatto con James.
Ripensando agli insegnamenti di suo fratello, Mungo si scopre capace di reagire, superandolo in violenza e diventando così “più uomo di quanto Hamish sarebbe mai stato e al tempo stesso anche meno”, una contraddizione impossibile da sciogliere. Nella lucidità di chi è stato spinto al limite, si rende conto di non poter più tornare indietro: anche se riuscirà a tornare a casa, non è più quello di prima.
Al termine del suo personale calvario Mungo si dimostra più forte del fratello, nella misura in cui è in grado di sottrarsi alla vergogna e di non rinnegare se stesso, senza per questo rassegnarsi a una vita mesta come quella di Chickie Calhoun. Ma in questo processo non c’è nulla di consolante o di nobile, tanto che arrivati all’epilogo è spontaneo chiedersi se fosse davvero necessario sottoporre Mungo a tanta sofferenza. La nota di speranza nel finale non riesce a bilanciare del tutto il fatalismo con cui Stuart osserva il suo stesso passato e il suo vecchio quartiere, dedicando il libro “a tutti i miti figli di Glasgow” come un’esortazione a venire via, il più in fretta possibile, senza guardarsi indietro.
